Don Baldo Reina
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Lettere Paoline
Dopo la lettera del Superiore generale don Silvio Sassi e l’articolo scritto da don Eliseo Sgarbossa, ssp, la rubrica dedicata a San Paolo, ospiterà un approfondimento dell’apostolo a partire da alcune tematiche specifiche. Sarà l'occasione per riflettere e conoscere sempre meglio questo nostro ‘Padre’ e imitarlo nella nostra vita. Curerà la rubrica don Baldo Reina, sacerdote, biblista e prefetto degli studi teologici nella diocesi di Agrigento. Don Baldo è anche assistente del gruppo delle Annunziatine di Agrigento. Lo ringraziamo vivamente per la sua cordiale disponibilità. Ho accolto con immensa gioia l’invito ad utilizzare questo spazio per condividere qualche riflessione sull’Apostolo Paolo in quest’anno giubilare a lui dedicato. Ringrazio di cuore don Vito per l’opportunità che mi concede e – molto di più – per l’amicizia fraterna; ringrazio e saluto di cuore le tante sorelle annunziatine sparse in Italia: alcune le conosco per via di qualche corso di esercizi spirituali, tante altre purtroppo no; a tutte mi sento legato da un vincolo di grazia sapendo quanto è importante la loro presenza all’interno della Chiesa. Scrivere qualcosa su S. Paolo, dopo i fiumi di inchiostri che sono stati versati per descriverne la teologia e l’attività, è quasi rischioso perchè è inevitabile affermare cose già note. Quale strada imboccare? Ho pensato che, forse, può essere utile riprendere le cose che già sappiamo e provare – passo passo – ad accostarle alla nostra vita di persone consacrate. Sì, perché – a mio avviso – non è solo importante conoscere S. Paolo ma è doveroso, soprattutto per chi ha deciso di sposarne il carisma, imitarlo con tutta la vita. Dunque, un cammino fatto di conoscenza e di riflessione per comprendere come avvicinare S. Paolo alla nostra vita e questa alla straordinaria vicenda dell’uomo che ha dato una svolta all’intera storia del cristianesimo. Così, vedremo alcuni aspetti della vita di Paolo e poi riprenderemo alcuni passaggi delle sue lettere per afferrarne i pilastri del pensare teologico ed ecclesiale. In questo primo contributo vorrei soffermarmi sulla formazione dell’apostolo Paolo poiché sono persuaso che questa influenza notevolmente la stesura delle lettere in nostro possesso. Sappiamo che Paolo è nativo di Tarso di Cilicia, una cittadina dell’Asia minore dove i genitori ebrei arrivarono – probabilmente – a motivo dell’espulsione ordinata dall’imperatore romano. |
Facevano parte di quella numerosa parte del popolo ebraico detto della ‘diaspora’ proprio per la fuoriuscita dal territorio nazionale ebraico. Paolo è coetaneo di Gesù (secondo la tradizione sarebbe nato nell’anno 8 d.C. e questo giustifica la scelta del 2008 come bimillenario dalla nascita) e nei primi anni dell’era cristiana in quella zona mediorientale confluivano tre elementi importanti: l’impero romano, la cultura ellenistica e la religione ebraica. Il primo stava conoscendo un periodo di grande splendore; la cultura dominante era quella istaurata da Alessandro Magno (III sec. a.C.) e la religione giudaica era ancora il collante di tutti i figli di Abramo. All’indomani della morte e risurrezione di Gesù è ben noto come i discepoli avessero privilegiato la continuità con i fratelli ebrei confinando la Buona novella dentro i confini del territorio giudaico e pensando, in assoluta buona fede, che solo chi appartenesse al popolo eletto poteva accogliere la salvezza di Cristo. In quel delicato frangente storico era necessario, invece, saper intrecciare le tre coordinate descritte sopra; era necessario conoscere la cultura greca per dire il messaggio del Vangelo con il linguaggio del tempo; avere una visione del mondo come quella dei romani per far conoscere ovunque che Gesù è il Cristo e appartenere alla religione giudaica per dimostrare che quanto era stato annunziato dai profeti adesso, finalmente, si è realizzato. Ecco la grandezza dell’apostolo Paolo. Egli è l’uomo che Dio ha chiamato affinché Gesù fosse conosciuto in ogni angolo della terra. Paolo, infatti, conosce molto bene la cultura greca per essersi formato in una delle città più importanti del tempo; la conosce e la usa abbondantemente per rendere ragionevole e comprensibile il messaggio di Gesù ed innestarlo in quel vasto mondo della cultura greca; ma Paolo è anche cittadino romano e, come tale, ha una precisa visione del mondo e della storia. Nei suoi spostamenti privilegerà le grandi città, le grandi vie di comunicazione e arriverà fino alla capitale dell’impero convinto che il futuro fosse strettamente legato ad essa. Ed, infine, Paolo è ebreo di nascita e di formazione; cresciuto in una famiglia ebraica, appena diciottenne viene mandato a Gerusalemme per conoscere accuratamente la religione dei padri alla scuola di Gamaliele, uno dei rabbi più famosi del tempo. E, dopo l’incontro con Cristo, Paolo utilizzerà molto il suo retroterra ebraico. Potrà parlare agli ebrei da ebreo e potrà dimostrare loro che il Messia atteso è venuto, si è caricato sulle spalle i nostri peccati, è morto in croce ed è risorto il terzo giorno per essere sempre presente in mezzo ai suoi. Nelle sue lettere Paolo si accosterà spesso all’AT riuscendo ad accostarlo perfettamente a ciò che era avvenuto negli ultimi tempi. In questo modo Paolo racchiude in sé le categorie più importanti dell’epoca e – guidato dallo Spirito – è in grado di causare un bel salto di qualità al Vangelo di Gesù Cristo. Ma tutto questo a noi oggi cosa dice? Come oggi possiamo imitare l’apostolo Paolo? Da quanto detto sopra ricavo un prezioso insegnamento che può essere utile a noi, alla fede che professiamo e alla consacrazione che viviamo. Paolo ci insegna che affinché l’annuncio del vangelo risulti efficace dobbiamo avere un cuore follemente innamorato di Cristo, ma anche una mente aperta per conoscere ciò che vive questo tempo. Come Paolo dobbiamo anche noi essere bravi ad intrecciare l’elemento religioso con quello culturale e con quello storico. Essere cristiani e consacrati oggi non è la stessa cosa di esserlo stati venti o trent’anni fa; e noi abbiamo il dovere di saper dire oggi il Vangelo senza mai pensare in modo nostalgico che prima era più facile o più comodo. Il Signore, ancora oggi ha qualcosa da dire all’uomo che vive questo tempo e – per farlo – ha bisogno di persone intelligenti e sante che sappiano cogliere i segni dei tempi ed interpretarli evangelicamente. Il Beato Alberione non si è accontentato di una ‘normale’ vita sacerdotale; ha intuito che il linguaggio delle comunicazioni sociali stava diventando sempre più importante e decisivo per la cultura del tempo e si è speso generosamente affinché, anche per mezzo di quei potenti mezzi, arrivasse il Vangelo. S. Paolo come don Alberione ci insegna che il mondo e la storia non vanno condannati ma vanno vissuti pienamente ben sapendo che dal tesoro del Vangelo possiamo sempre tirar fuori cose antiche e cose nuove. Riscoprire l’apostolo Paolo, per noi, potrebbe significare innanzitutto valorizzare questo immenso patrimonio che ci lascia. Come lui vogliamo impegnarci a conoscere meglio le categorie culturali del nostro tempo per innestare in esse la Buona novella; avere una visione del mondo (pensiamo alla globalizzazione) che ci faccia uscire dai nostri piccoli confini e ci faccia sognare orizzonti più ampi dove Dio vuole entrare e valorizzare la Tradizione che ci lasciamo alle spalle non come deposito dell’«abbiamo sempre fatto così», ma come impegno per vivere bene il nostro presente. L’apostolo Paolo ci aiuti affinché anche noi come lui possiamo spenderci con tutte le forze per la causa del Vangelo, per poter affermare – alla fine dei nostri giorni – «ho combattuto la buona battaglia!». |
C’è un evento nella vita di San Paolo che va collocato al centro di tutta la sua vicenda storica, spirituale e missionaria: l’incontro con il Risorto sulla via di Damasco. Il resoconto dell’accaduto è presentato in tre sezioni del libro degli Atti (cap. 9; 22; 26) ed in alcuni passaggi delle lettere dello stesso Paolo. Certamente si è trattato di una vera e propria folgorazione che ha colto Paolo nel cuore del suo zelante desiderio di perseguitare la giovane comunità cristiana di Damasco. |
Come definire tutto questo? Alcuni parleranno di conversione, altri di vocazione, altri ancora di illuminazione… poco importano i termini, ciò che veramente conta è l’incontro in profondità fra i due e, soprattutto, le conseguenze che da esso scaturiranno. Infatti, da qui in avanti Paolo non riuscirà più a pensarsi senza fare riferimento a Cristo, anzi, identificherà tutta la sua vita con quella del Risorto e sentirà questa profondamente innestata nella sua.
Nella lettera ai Galati arriverà a scrivere: “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me; questa vita che vivo nella carne la vivo nella fede del figlio di Dio che ha dato se stesso per me” (Gal 2,15-21). Ormai il nuovo epicentro della vita dell’apostolo non è più la Legge, ma la fede in Cristo morto e risorto per riscattare ogni uomo dalla condizione infame del peccato. Tutto lo spazio vitale di Paolo è preso, conquistato da Cristo al punto che, con genialità mistica, lo stesso Paolo scriverà: ‘Per me il vivere è Cristo’. La teofania della via è per Paolo un’intensa esperienza di mistero pasquale, di morte e di risurrezione; muore l’uomo vecchio con tutte le sue convinzioni e risorge l’uomo nuovo perfettamente innestato in Cristo e desideroso di essere in tutto conforme a Lui. Da qui, da questa straordinaria avventura mistica, Paolo inizia a maturare la propria vocazione di ‘apostolo’ per portare a tutti la Buona novella che Cristo è venuto a liberarci dai nostri peccati. Sarà questa la molla della sua instancabile ed avvincente esperienza missionaria che lo porterà da una parte all’altra del mondo, da Gerusalemme ad Antiochia, da Atene a Corinto, da Efeso a Roma… Tutto per Cristo, tutto e sempre affinché Cristo venga portato nei cuori e diventi cuore di ogni scelta. Il persecutore del cristianesimo diventerà mira delle persecuzioni di tanti che lo bastoneranno pur di metterlo a tacere, ma senza alcun risultato se non quello di rafforzarlo nell’idea che tutto va fatto per il Vangelo. Damasco è, dunque, molto di più di un semplice incontro; è la sorgente della vita spirituale di Paolo, è la motivazione profonda della sua missione, è la radice vera e sana della sua apostolicità, è la fonte di ogni conoscenza e di ogni arguta riflessione sul mistero della salvezza. Per ogni persona consacrata vale la pena tornare a quest’incontro perché la riuscita o meno delle nostre esperienze e di ogni sincero cammino di santità dipende dalla forza e dalla verità di quell’incontro. Certamente c’è stato un momento, nella nostra avventura vocazionale, in cui ci siamo sentiti conquistati, affascinati, presi da Cristo, lo abbiamo sperimentato vivo nella nostra povera vita e abbiamo deciso di vivere per Lui, con Lui ed in Lui. Ma è necessario chiederci se quell’incontro ha mantenuto la stessa forza dei primi momenti; se – come in Paolo – è diventato fuoco per accendere continuamente la nostra vita; se è diventato pretesto di missione generosa e feconda; oppure se con il tempo, con l’età, col sopraggiungere delle difficoltà piccole e grandi, quell’incontro ha perso tutta la bellezza che gli appartiene e, anziché coinvolgere ‘il vivere’, ha preso soltanto qualche piccola parte della nostra vita. L’Anno Paolino è per tutti – ed in particolare per le persone consacrate – occasione per rivivere Damasco, per morire una volta per tutte al peccato, all’uomo vecchio fatto di tante cose inutili, e per risorgere a vita nuova, per scoprire che Cristo non è semplicemente presente accanto a noi, ma è in noi e ci chiede di essere in Lui per portare frutto. Ritornare a queste motivazioni profonde è premessa e promessa di vera gioia, di santità autentica, quella di Paolo, ma anche la nostra. Allora Damasco può continuare! |
Le tappe della vita di Paolo che conosciamo attraverso le fonti a nostra disposizione – la formazione a Tarso, la vocazione sulla via di Damasco, il tempo del deserto, l’incontro con le colonne della Chiesa di Gerusalemme, la lenta maturazione a contatto con la Tradizione – rendono ragione del lungo racconto che ci presenta il libro degli Atti a partire dal capitolo 15 fino alla fine: una sezione avvincente in cui l’Apostolo è in continuo movimento da un capo all’altro del mondo, dall’Asia minore alla Grecia, da Gerusalemme a Roma… Sembra avere quasi premura, come se l’annuncio non potesse più attendere; c’è urgenza, desiderio, frenesia… nell’incedere dell’apostolo che non vuole trascurare nessuna realtà e vuole raggiungere i confini del mondo; è un continuo mettersi in movimento affinché tutti conoscano il Vangelo e si lascino incontrare da Cristo, salvezza del mondo. Chissà se nella breve permanenza a Gerusalemme qualcuno fra gli apostoli avrà riferito a Paolo l’ultima frase del Risorto: ‘Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura!’ Non lo sappiamo, ma di certo Paolo si sente mosso da una impareggiabile spinta missionaria che lo porterà a scrivere: ‘L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti’. |
L’apostolo si muove con il fuoco del Vangelo dentro le fibre del corpo ma è anche sostenuto da una precisa strategia che gli consente da vero cittadino romano di valorizzare al meglio le grandi vie di comunicazione (la via Egnatia per esempio) per una più efficace opera evangelizzatrice. Sin dall’inizio è mosso dal sogno di arrivare a Roma ben consapevole che è da lì che passa il futuro, anche quello del cristianesimo (che intuizione geniale!) e dalla Provvidenza sarà guidato passo passo fino a coronarlo. Leggendo con attenzione l’inizio della lettera ai Romani (l’unica indirizzata ad una comunità non fondata da lui) ci si rende conto di quanto gli stesse a cuore l’arrivo nella capitale dell’impero (secondo alcuni da lì si sarebbe mosso anche fino in Spagna) per un annuncio veramente cattolico, universale. |
Afferrato e affascinato dall’amore del Crocifisso, Paolo intraprende i viaggi missionari con il preciso intento di portare ovunque la buona novella. Il racconto degli Atti descrive gli spostamenti, le città visitate, le reazioni delle diverse comunità… l’esperienza del giovane missionario. In questo resoconto avvincente ci si imbatte – nel mezzo del secondo viaggio missionario – in una battuta d’arresto dai toni chiaroscuri: il discorso di Atene. Paolo vi giunge dopo essere stato a Tessalonica e a Berea e ai suoi occhi la città costituisce il luogo ideale per vivere una particolare esperienza di evangelizzazione e di incontro fra fede e cultura in quanto, anche se già in declino, rappresenta un faro culturale per l’intero mondo ellenistico e non solo; la presenza di scuole filosofiche (epicurei, stoici…) e i culti alle diverse divinità costituivano per Paolo una vera e propria sfida. Il libro degli Atti nel capitolo 17 racconta l’esperienza dell’Apostolo con due differenti scansioni: nella prima è testimoniato l’ardore di Paolo che, al suo solito, valorizza sinagoga e piazza per presentare l’Evangelo suscitando l’interesse dei colti abitanti; nel secondo l’attenzione si fa ancora più dettagliata e sono gli stessi ateniesi ad invitare l’apostolo per approfondire ulteriormente l’argomento: ‘Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata da te? Cose strane ci metti negli orecchi; desideriamo conoscere di che cosa si tratta’(At 17,19-20). A questo punto Paolo inizia l’esposizione dell’argomento con una bella ed erudita trattazione facendo accostamenti a filosofi e poeti del luogo per dimostrare la verità su Dio e sulla storia della salvezza; sembra quasi un trattato di teodicea quello di Paolo, cioè il tentativo di spiegare con la ragione l’esistenza di Dio e le sue ragioni. La predica è bellissima e ben impostata, ma ai presenti non interessa più di tanto: ‘Ti sentiremo su questo un’altra volta’ (At 17,33) è la triste conclusione della permanenza ateniese; solo alcuni aderiranno al Vangelo ma da lì in avanti non sapremo né di altre visite né di scritti indirizzati a quella comunità. Un fallimento dunque? E se è così perché ricordarlo? |
Ho voluto riprendere l’episodio dell’areopago di Atene per sottolineare la necessità di accettare le sfide che si presentano e la capacità di rivedere metodi e scelte. |
Dopo aver visto gli aspetti salienti della vita di Paolo e dei suoi viaggi missionari, vorrei dedicare questi ultimi contributi ad alcune riflessioni tematiche nel tentativo di sentire l’e sperienza dell’apostolo vicina a quella della nostra vita. Si tratta, come le altre volte, di considerazioni semplici che raccolgono alcuni passaggi delle lettere paoline e che arrivano a noi con la forza e con la freschezza di sempre. |
Un argomento che sta particolarmente a cuore all’Apostolo Paolo è la comunione ecclesiale: “Un solo corpo ed un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un soo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,2-6). Da questo canto all’unità si capisce quanto Paolo lavori e s’impegni affinché i cristiani delle comunità da lui fondate vivano secondo il modello della prima comunità – ‘un cuor solo ed un anima sola’ – e rispondendo al comando del Divin Maestro: ‘Padre fa’ che siano una cosa sola’. In ogni lettera ci sono costanti richiami alla rete sottile e delicata della comunione spesso minata da pericoli. In particolare, vorrei accostarmi alla prima lettera ai Corinzi perché lì si possono individuare indicazioni di notevole spessore circa la comunione. L’architettura del testo di la Corinzi poggia sulla centralità del mistero pasquale come chiave di comprensione del vissuto della comunità: è alla luce di Cristo Crocifisso e Risorto che Paolo affronta le problematiche di Corinto aprendo orizzonti che superano la semplice soluzione dell’immediato. |
Il cap 12 è tutto attraversato da questo felice paragone: “Come il corpo, pur essendo uno ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo”. Attraverso questa porta solenne Paolo entra per analizzare il corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. Ma come sentirsi corpo? Paolo risponde con tre sottolineature: a) il senso di appartenenza; b) avvertire il bisogno dell’altro; c) prendersi cura di ogni membro. Sono i gradini essenziali della comunione: anzitutto serve sentirsi parte di un corpo più ampio e sentire che questo corpo ci appartiene; sentendosi parte si capisce che l’altro non è un peso, ma è ciò di cui io ho bisogno per essere; e se è così me ne devo prendere cura amorevolmente. È evidente che l’immagine del corpo serve a Paolo per presentare la realtà della Chiesa; tuttavia vorremmo, per un istante, tentare di leggere – attraverso di essa – la realtà dell’Istituto di cui facciamo parte. Com’è la comunione che viviamo nei nostri gruppi, fra i nostri gruppi e le parrocchie, fra le singole persone di ogni gruppo...? Forse dovremmo chiederci con Paolo se vi sono discordie fra di noi e se a forza di ragionare in modo polare – per opposizione più che per comunione – non rischiamo di smarrire in modo pericoloso la nostra profonda identità. Si tratta di capire se ad animare i nostri gruppi è la comunione più vera, quella che sa fare dello stare insieme (cum) il suo compito primario (munus), quella che costruisce ponti più che alzare barricate, quella che accoglie più che respingere, quella che unisce più che dividere, quella che armonizza un unico corpo più che esaltare qualche singola parte. È dono di Dio la comunione, ma anche impegno faticoso di tutti e di ciascuno; si realizza se lo vogliamo e se siamo capaci di spenderci per essa, se riusciamo a sentirci parte di una bella realtà in cui il buon Dio ci ha voluti, se riusciamo ad amare le persone che ci sono state poste accanto e se di esse riusciamo a prenderci cura. Chiediamo al Signore, per l’intercessione di S. Paolo e del Beato Giacomo Alberione, il dono di una comunione autentica che ci faccia essere corpo robusto e sano che sa diffondere il buon profumo di Cristo. |
La lettera ai Galati |
La lettera ai Galati diventa lo specchio di questo procedere e presenta i momenti salienti della vita di fede: la libera iniziativa di Dio, la dimensione profonda della fede, il rapporto con la Legge, la nuova identità di figli (nel Figlio), la libertà e la vita nello Spirito. Un passo dopo l’altro per arrivare a considerare la piena maturità cristiana. Uno dei vertici più alti dello scritto Paolo ce lo offre alla fine del secondo capitolo: ‘Sono stato crocifisso con Cristo, non sono più io che vivo ma Cristo vive in me, questa vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio’. Poiché su questo passaggio abbiamo già riflettuto in un precedente contributo, vorrei dedicare lo spazio che ci rimane ad una riflessione sulla libertà cristiana. L’apostolo non vuole assolutamente mettere in discussione l’impianto normativo della Torah, ma lui per primo ha sperimentato che da quello non arriva alcuna salvezza o giustificazione; solo l’adesione a Cristo, attraverso una fiducia incondizionata che opera per mezzo della carità, può creare le condizioni per sentirsi veramente nuovi. Paolo sintetizza il valore della Legge e delle sue opere nell’immagine del pedagogo o del maestro chiamato a guidare il bambino nei suoi primi passi; arriva, però, il momento della piena maturità in cui il pedagogo si ringrazia, ma senza sentirsi dipendenti da lui. Per il cristiano la maturità è Cristo e il rapporto integrale con Lui la condizione per giungere alla salvezza. Dunque, non più schiavi della Legge, ma figli liberi per i meriti di Gesù Crocifisso. Ma potrebbe un simile modo di ragionare dare adito ad una libertà senza àncore? Visto che siamo figli possiamo fare tutto ciò che vogliamo? E – soprattutto – chi guida la nostra libertà? Alla libertà cristiana Paolo dedica gli ultimi capitoli della lettera presentando, quasi, uno statuto epistemologico della nuova condizione. Innanzitutto ci ricorda che i cristiani prima ancora di essere liberi sono ‘liberati’: “Cristo ci ha liberati per la libertà!... Voi fratelli siete stati chiamati a libertà”. La libertà, così presentata, non è un assoluto, ma un dono che un Altro ci ha meritato, una profonda vocazione che segna un orientamento preciso nella misura in cui non si perde di vista la Sorgente. Se Cristo ci ha liberati, è in Lui che trova spazio la nostra libertà, anzi, è Lui la nostra libertà; è Lui che la rende possibile ed autentica. In Lui comprendiamo che non possiamo usare la libertà come pretesto per fare ciò che ci passa per la testa, altrimenti la trasformiamo in miserrima schiavitù (e sono sotto gli occhi di tutti i risultati di una libertà sfigurata dal libertinaggio). Ma come fare perché si mantenga alto il profilo della libertà cristiana? Possiamo farcela con le nostre sole forze? Nello stesso cap. 5, in cui Paolo presenta il valore della libertà redenta, inserisce una riflessione sul frutto dello Spirito, quasi ad indicare che è Lui il Maestro interiore che ci guida, affinché la libertà non ci porti a soddisfare i desideri del peccato, ma a realizzare il progetto di Dio. Il frutto dello Spirito è il frutto maturo della libertà, è lo spazio vitale e puro in cui il cristiano si muove. Nella descrizione del frutto dello Spirito, Paolo indica le grandi autostrade della libertà: amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge perché c’è solo libertà. Una libertà, dunque, che si coniuga attraverso i verbi impegnativi dell’amore e del bene, che si colora di fedeltà e bellezza, che riesce ad uscire da sé per ricercare – nella larghezza d’animo – il bene dell’altro. Un programma di vita… un programma di felicità. Alle Annunziatine, ad ogni battezzato risuonano forti le parole di Paolo sulla libertà perché se nessuno mette in dubbio che apparentemente non ci sono limiti alla libertà, forse, dovremmo riconoscere di essere un po’ lontani dall’ideale appena tracciato: troppi schematismi ci imprigionano, troppe prassi sterili ci bloccano, troppi pregiudizi ci fanno restare piccoli. Serve, alla nostra realtà (ecclesiale, di gruppo, di Chiesa…), uno slancio di libertà attraverso una rinnovata primavera dello Spirito in cui ogni figlio si sente accolto, amato e sostenuto; servono dinamiche più snelle e gambe più robuste per portare all’esterno la Buona Novella del Regno; serve imitare Cristo, l’uomo libero non perché ha fatto ciò che gli è piaciuto, ma perché gli è piaciuto fare ciò che il Padre gli chiedeva. Guardando Lui saremo veramente liberi come cristiani e come Chiesa; contempliamolo mentre ricorda ai suoi discepoli: “La verità vi farà liberi”. |
Nel precedente contributo abbiamo cercato di mostrare l’interessante itinerario teologico che Paolo offre alla comunità di Roma in attesa di una sua visita. Dal tema della giustificazione che riguarda l’umanità peccatrice, a quello della salvezza offerto a coloro che sono stati resi giusti fino all’impegno morale, al fine di saper offrire tutta la vita come ‘sacrificio vivente santo e gradito a Dio’. |
Nell’ottavo capitolo della lettera ai Romani Paolo ci mostra alcuni passaggi che qui brevemente richiamo. Innanzitutto il fatto che la legge dello Spirito ci scalza dalla legge del peccato. Cioè, sapere che dentro di noi c’è Dio all’opera, annulla la spinta al peccato per cui questo non è più una legge, una necessità, un obbligo. |
Nel corso dell’Anno Paolino don Baldo ha curato questa rubrica dedicata all’approfondimento della figura di Paolo e di alcuni temi fondamentali della sua teologia. Lo ringraziamo vivamente per la competenza e la preparazione con le quali ha affrontato i diversi argomenti nonché per tutti gli stimoli concreti che a partire da essi ha lanciato alla nostra vita. Il Signore lo ricolmi di ogni benedizione. Sul finire della lettera ai Romani (dal cap. 12 al cap. 16) Paolo si sofferma su alcuni aspetti che riguardano la vita morale del credente. |
Adesso il culto spirituale è proprio il sacrificio del nostro corpo donato, di tutto ciò che fa parte del nostro vivere santificato dal sacrificio di Cristo sulla croce e chiamato a diventare esso stesso sacrificio (sacrum facere) vivo, santo e bello agli occhi di Dio.
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