Don Baldo Reina
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Lettere Paoline

Dopo la lettera del Superiore generale don Silvio Sassi e l’articolo scritto da don Eliseo Sgarbossa, ssp, la rubrica dedicata a San Paolo, ospiterà un approfondimento dell’apostolo a partire da alcune tematiche specifiche. Sarà l'occasione per riflettere e conoscere sempre meglio questo nostro ‘Padre’ e imitarlo nella nostra vita. Curerà la rubrica don Baldo Reina, sacerdote, biblista e prefetto degli studi teologici nella diocesi di Agrigento. Don Baldo è anche assistente del gruppo delle Annunziatine di Agrigento. Lo ringraziamo vivamente per la sua cordiale disponibilità.

Ho accolto con immensa gioia l’invito ad utilizzare questo spazio per condividere qualche riflessione sull’Apostolo Paolo in quest’anno giubilare a lui dedicato. Ringrazio di cuore don Vito per l’opportunità che mi concede e – molto di più – per l’amicizia fraterna; ringrazio e saluto di cuore le tante sorelle annunziatine sparse in Italia: alcune le conosco per via di qualche corso di esercizi spirituali, tante altre purtroppo no; a tutte mi sento legato da un vincolo di grazia sapendo quanto è importante la loro presenza all’interno della Chiesa.
Scrivere qualcosa su S. Paolo, dopo i fiumi di inchiostri che sono stati versati per descriverne la teologia e l’attività, è quasi rischioso perchè è inevitabile affermare cose già note. Quale strada imboccare? Ho pensato che, forse, può essere utile riprendere le cose che già sappiamo e provare – passo passo – ad accostarle alla nostra vita di persone consacrate. Sì, perché – a mio avviso – non è solo importante conoscere S. Paolo ma è doveroso, soprattutto per chi ha deciso di sposarne il carisma, imitarlo con tutta la vita. Dunque, un cammino fatto di conoscenza e di riflessione per comprendere come avvicinare S. Paolo alla nostra vita e questa alla straordinaria vicenda dell’uomo che ha dato una svolta all’intera storia del cristianesimo. Così, vedremo alcuni aspetti della vita di Paolo e poi riprenderemo alcuni passaggi delle sue lettere per afferrarne i pilastri del pensare teologico ed ecclesiale.
In questo primo contributo vorrei soffermarmi sulla formazione dell’apostolo Paolo poiché sono persuaso che questa influenza notevolmente la stesura delle lettere in nostro possesso. Sappiamo che Paolo è nativo di Tarso di Cilicia, una cittadina dell’Asia minore dove i genitori ebrei arrivarono – probabilmente – a motivo dell’espulsione ordinata dall’imperatore romano.
Facevano parte di quella numerosa parte del popolo ebraico detto della ‘diaspora’ proprio per la fuoriuscita dal territorio nazionale ebraico. Paolo è coetaneo di Gesù (secondo la tradizione sarebbe nato nell’anno 8 d.C. e questo giustifica la scelta del 2008 come bimillenario dalla nascita) e nei primi anni dell’era cristiana in quella zona mediorientale confluivano tre elementi importanti: l’impero romano, la cultura ellenistica e la religione ebraica. Il primo stava conoscendo un periodo di grande splendore; la cultura dominante era quella istaurata da Alessandro Magno (III sec. a.C.) e la religione giudaica era ancora il collante di tutti i figli di Abramo.
All’indomani della morte e risurrezione di Gesù è ben noto come i discepoli avessero privilegiato la continuità con i fratelli ebrei confinando la Buona novella dentro i confini del territorio giudaico e pensando, in assoluta buona fede, che solo chi appartenesse al popolo eletto poteva accogliere la salvezza di Cristo. In quel delicato frangente storico era necessario, invece, saper intrecciare le tre coordinate descritte sopra; era necessario conoscere la cultura greca per dire il messaggio del Vangelo con il linguaggio del tempo; avere una visione del mondo come quella dei romani per far conoscere ovunque che Gesù è il Cristo e appartenere alla religione giudaica per dimostrare che quanto era stato annunziato dai profeti adesso, finalmente, si è realizzato.
Ecco la grandezza dell’apostolo Paolo. Egli è l’uomo che Dio ha chiamato affinché Gesù fosse conosciuto in ogni angolo della terra. Paolo, infatti, conosce molto bene la cultura greca per essersi formato in una delle città più importanti del tempo; la conosce e la usa abbondantemente per rendere ragionevole e comprensibile il messaggio di Gesù ed innestarlo in quel vasto mondo della cultura greca; ma Paolo è anche cittadino romano e, come tale, ha una precisa visione del mondo e della storia.
Nei suoi spostamenti privilegerà le grandi città, le grandi vie di comunicazione e arriverà fino alla capitale dell’impero convinto che il futuro fosse strettamente legato ad essa. Ed, infine, Paolo è ebreo di nascita e di formazione; cresciuto in una famiglia ebraica, appena diciottenne viene mandato a Gerusalemme per conoscere accuratamente la religione dei padri alla scuola di Gamaliele, uno dei rabbi più famosi del tempo. E, dopo l’incontro con Cristo, Paolo utilizzerà molto il suo retroterra ebraico. Potrà parlare agli ebrei da ebreo e potrà dimostrare loro che il Messia atteso è venuto, si è caricato sulle spalle i nostri peccati, è morto in croce ed è risorto il terzo giorno per essere sempre presente in mezzo ai suoi.
Nelle sue lettere Paolo si accosterà spesso all’AT riuscendo ad accostarlo perfettamente a ciò che era avvenuto negli ultimi tempi. In questo modo Paolo racchiude in sé le categorie più importanti dell’epoca e – guidato dallo Spirito – è in grado di causare un bel salto di qualità al Vangelo di Gesù Cristo.
Ma tutto questo a noi oggi cosa dice? Come oggi possiamo imitare l’apostolo Paolo? Da quanto detto sopra ricavo un prezioso insegnamento che può essere utile a noi, alla fede che professiamo e alla consacrazione che viviamo. Paolo ci insegna che affinché l’annuncio del vangelo risulti efficace dobbiamo avere un cuore follemente innamorato di Cristo, ma anche una mente aperta per conoscere ciò che vive questo tempo. Come Paolo dobbiamo anche noi essere bravi ad intrecciare l’elemento religioso con quello culturale e con quello storico. Essere cristiani e consacrati oggi non è la stessa cosa di esserlo stati venti o trent’anni fa; e noi abbiamo il dovere di saper dire oggi il Vangelo senza mai pensare in modo nostalgico che prima era più facile o più comodo. Il Signore, ancora oggi ha qualcosa da dire all’uomo che vive questo tempo e – per farlo – ha bisogno di persone intelligenti e sante che sappiano cogliere i segni dei tempi ed interpretarli evangelicamente.
Il Beato Alberione non si è accontentato di una ‘normale’ vita sacerdotale; ha intuito che il linguaggio delle comunicazioni sociali stava diventando sempre più importante e decisivo per la cultura del tempo e si è speso generosamente affinché, anche per mezzo di quei potenti mezzi, arrivasse il Vangelo. S. Paolo come don Alberione ci insegna che il mondo e la storia non vanno condannati ma vanno vissuti pienamente ben sapendo che dal tesoro del Vangelo possiamo sempre tirar fuori cose antiche e cose nuove. Riscoprire l’apostolo Paolo, per noi, potrebbe significare innanzitutto valorizzare questo immenso patrimonio che ci lascia. Come lui vogliamo impegnarci a conoscere meglio le categorie culturali del nostro tempo per innestare in esse la Buona novella; avere una visione del mondo (pensiamo alla globalizzazione) che ci faccia uscire dai nostri piccoli confini e ci faccia sognare orizzonti più ampi dove Dio vuole entrare e valorizzare la Tradizione che ci lasciamo alle spalle non come deposito dell’«abbiamo sempre fatto così», ma come impegno per vivere bene il nostro presente.
L’apostolo Paolo ci aiuti affinché anche noi come lui possiamo spenderci con tutte le forze per la causa del Vangelo, per poter affermare – alla fine dei nostri giorni – «ho combattuto la buona battaglia!».

 


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C’è un evento nella vita di San Paolo che va collocato al centro di tutta la sua vicenda storica, spirituale e missionaria: l’incontro con il Risorto sulla via di Damasco. Il resoconto dell’accaduto è presentato in tre sezioni del libro degli Atti (cap. 9; 22; 26) ed in alcuni passaggi delle lettere dello stesso Paolo. Certamente si è trattato di una vera e propria folgorazione che ha colto Paolo nel cuore del suo zelante desiderio di perseguitare la giovane comunità cristiana di Damasco.
Il giovane fariseo era fortemente convinto – in nome della Legge studiata e pregata – che quella ‘setta dei seguaci di Gesù’ andava eliminata perché corrompeva la purezza della fede ebraica e comprometteva la centralità della Torah.

Nel cuore di questa profonda e radicata convinzione accade l’impensabile, il terremoto! Cristo Risorto si manifesta – con le forme della voce e della luce – accecando colui che pretendeva di vedere chiaramente ogni cosa. ‘Io sono Gesù che tu perseguiti’, Paolo è conquistato dal Risorto, ne avverte subito la potenza e sperimenta che quella Presenza gli è entrata dentro a tal punto che non riesce più a dire nulla; l’orgoglio della conoscenza crolla di fronte alla luce dell’Umile Figlio di Dio e la potenza della sapienza cede il passo alla debolezza del Crocifisso.

Come definire tutto questo? Alcuni parleranno di conversione, altri di vocazione, altri ancora di illuminazione… poco importano i termini, ciò che veramente conta è l’incontro in profondità fra i due e, soprattutto, le conseguenze che da esso scaturiranno. Infatti, da qui in avanti Paolo non riuscirà più a pensarsi senza fare riferimento a Cristo, anzi, identificherà tutta la sua vita con quella del Risorto e sentirà questa profondamente innestata nella sua.
Nella lettera ai Galati arriverà a scrivere: “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me; questa vita che vivo nella carne la vivo nella fede del figlio di Dio che ha dato se stesso per me” (Gal 2,15-21). Ormai il nuovo epicentro della vita dell’apostolo non è più la Legge, ma la fede in Cristo morto e risorto per riscattare ogni uomo dalla condizione infame del peccato. Tutto lo spazio vitale di Paolo è preso, conquistato da Cristo al punto che, con genialità mistica, lo stesso Paolo scriverà: ‘Per me il vivere è Cristo’.
La teofania della via è per Paolo un’intensa esperienza di mistero pasquale, di morte e di risurrezione; muore l’uomo vecchio con tutte le sue convinzioni e risorge l’uomo nuovo perfettamente innestato in Cristo e desideroso di essere in tutto conforme a Lui. Da qui, da questa straordinaria avventura mistica, Paolo inizia a maturare la propria vocazione di ‘apostolo’ per portare a tutti la Buona novella che Cristo è venuto a liberarci dai nostri peccati. Sarà questa la molla della sua instancabile ed avvincente esperienza missionaria che lo porterà da una parte all’altra del mondo, da Gerusalemme ad Antiochia, da Atene a Corinto, da Efeso a Roma… Tutto per Cristo, tutto e sempre affinché Cristo venga portato nei cuori e diventi cuore di ogni scelta.
Il persecutore del cristianesimo diventerà mira delle persecuzioni di tanti che lo bastoneranno pur di metterlo a tacere, ma senza alcun risultato se non quello di rafforzarlo nell’idea che tutto va fatto per il Vangelo.
Damasco è, dunque, molto di più di un semplice incontro; è la sorgente della vita spirituale di Paolo, è la motivazione profonda della sua missione, è la radice vera e sana della sua apostolicità, è la fonte di ogni conoscenza e di ogni arguta riflessione sul mistero della salvezza.
Per ogni persona consacrata vale la pena tornare a quest’incontro perché la riuscita o meno delle nostre esperienze e di ogni sincero cammino di santità dipende dalla forza e dalla verità di quell’incontro.
Certamente c’è stato un momento, nella nostra avventura vocazionale, in cui ci siamo sentiti conquistati, affascinati, presi da Cristo, lo abbiamo sperimentato vivo nella nostra povera vita e abbiamo deciso di vivere per Lui, con Lui ed in Lui. Ma è necessario chiederci se quell’incontro ha mantenuto la stessa forza dei primi momenti; se – come in Paolo – è diventato fuoco per accendere continuamente la nostra vita; se è diventato pretesto di missione generosa e feconda; oppure se con il tempo, con l’età, col sopraggiungere delle difficoltà piccole e grandi, quell’incontro ha perso tutta la bellezza che gli appartiene e, anziché coinvolgere ‘il vivere’, ha preso soltanto qualche piccola parte della nostra vita.
L’Anno Paolino è per tutti – ed in particolare per le persone consacrate – occasione per rivivere Damasco, per morire una volta per tutte al peccato, all’uomo vecchio fatto di tante cose inutili, e per risorgere a vita nuova, per scoprire che Cristo non è semplicemente presente accanto a noi, ma è in noi e ci chiede di essere in Lui per portare frutto. Ritornare a queste motivazioni profonde è premessa e promessa di vera gioia, di santità autentica, quella di Paolo, ma anche la nostra. Allora Damasco può continuare!

 


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Le tappe della vita di Paolo che conosciamo attraverso le fonti a nostra disposizione – la formazione a Tarso, la vocazione sulla via di Damasco, il tempo del deserto, l’incontro con le colonne della Chiesa di Gerusalemme, la lenta maturazione a contatto con la Tradizione – rendono ragione del lungo racconto che ci presenta il libro degli Atti a partire dal capitolo 15 fino alla fine: una sezione avvincente in cui l’Apostolo è in continuo movimento da un capo all’altro del mondo, dall’Asia minore alla Grecia, da Gerusalemme a Roma… Sembra avere quasi premura, come se l’annuncio non potesse più attendere; c’è urgenza, desiderio, frenesia… nell’incedere dell’apostolo che non vuole trascurare nessuna realtà e vuole raggiungere i confini del mondo; è un continuo mettersi in movimento affinché tutti conoscano il Vangelo e si lascino incontrare da Cristo, salvezza del mondo. Chissà se nella breve permanenza a Gerusalemme qualcuno fra gli apostoli avrà riferito a Paolo l’ultima frase del Risorto: ‘Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura!’ Non lo sappiamo, ma di certo Paolo si sente mosso da una impareggiabile spinta missionaria che lo porterà a scrivere: ‘L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti’.

E Paolo è continuamente sospinto in avanti da questo grande fuoco che gli brucia dentro di fronte al quale ‘tutto il resto è spazzatura’.Mettendo insieme gli elementi storici e geografici degli Atti, generalmente si contano tre grandi viaggi missionari (in realtà saranno stati molti di più) con una dinamica molto simile soprattutto fra il secondo e il terzo: il punto di partenza è la Chiesa madre di Gerusalemme o la comunità di Antiochia e poi si procede verso l’Asia minore (attuale Turchia), la si percorre nella parte meridionale e si inizia la risalita fino ai confini con la Macedonia; qui Paolo – forte della formazione ellenistica ricevuta nella propria città natale – capisce di poter affrontare la sfida e inizia una evangelizzazione capillare nel mondo greco, particolarmente fecondo da un punto di vista culturale privilegiando i grandi centri urbani: Tessalonica, Filippi, Atene, Corinto, convinto che dalle città il Vangelo potrà propagarsi più facilmente verso i territori vicini.


L’apostolo si muove con il fuoco del Vangelo dentro le fibre del corpo ma è anche sostenuto da una precisa strategia che gli consente da vero cittadino romano di valorizzare al meglio le grandi vie di comunicazione (la via Egnatia per esempio) per una più efficace opera evangelizzatrice. Sin dall’inizio è mosso dal sogno di arrivare a Roma ben consapevole che è da lì che passa il futuro, anche quello del cristianesimo (che intuizione geniale!) e dalla Provvidenza sarà guidato passo passo fino a coronarlo. Leggendo con attenzione l’inizio della lettera ai Romani (l’unica indirizzata ad una comunità non fondata da lui) ci si rende conto di quanto gli stesse a cuore l’arrivo nella capitale dell’impero (secondo alcuni da lì si sarebbe mosso anche fino in Spagna) per un annuncio veramente cattolico, universale.
Il metodo scelto nell’evangelizzazione è molto semplice: si arriva in una città con i collaboratori e si cerca di individuare i luoghi di incontro: se c’è una sinagoga si entra, si partecipa alla liturgia della Parola con i brani dell’AT e ci si inserisce mostrando puntualmente che Gesù è il compimento di ogni promessa. Se mancano le sinagoghe ebraiche ci si ritrova nelle piazze, nelle case, nei mercati, nelle strade e lì si inizia a narrare l’Evento che ha cambiato la storia: la morte e la risurrezione di Gesù. Il Vangelo è portato con semplicità, immediatezza, verità, senza inutili ragionamenti, senza sapienza di parola, ma con un dire che è eco fedele di un cuore pieno. La fede nel Risorto è mostrata più che dimostrata e così arriva nella vita di quelle persone affannate – come noi – ad inseguire tante, troppe cose. Vedremo in seguito i contenuti di questo annuncio ma quanto detto ci basta a mostrare un principio che sosterrà l’evangelizzazione di Paolo: ‘Ho creduto perciò ho parlato’. Con questo semplice assunto Paolo lega a doppio filo fede e annuncio, credo e missione, mistica ed evangelizzazione intuendo che è impossibile dire di credere e non sentire il bisogno di annunciare; la fede senza l’annuncio è morta e l’annuncio senza la fede è sterile. Solo chi ha il cuore traboccante dell’amore di Dio riesce ad essere annunciatore fedele e gioioso del Vangelo che, ieri come oggi, è l’unico capace di dare senso pieno alla vita di ognuno. In uno dei suoi scritti Paolo affermerà: ‘Guai a me se non annuncio il Vangelo’; si sentirebbe un fallito Paolo se con tutta la sua vita non fosse capace di portare la Buona Novella.
I viaggi missionari dell’apostolo costituiscono per ogni battezzato e, in particolare, per ogni persona consacrata, l’occasione per tornare a riflettere sull’urgenza della missione. San Paolo è modello di vita mistica, di incontro sconvolgente con il Risorto e di missionario che non conosce fatica. Far parte ‘dei suoi’ significa anzitutto imitarne lo stile, che è quello dinamico dell’uscire e dell’annuncio più che gettare la spugna con fare rassegnato. Giovanni Paolo II in più di una occasione ci ha invitato a pensare ad una nuova evangelizzazione; nuova non tanto nei contenuti, quanto nel metodo e, soprattutto, nell’entusiasmo. Sentirsi coinvolti nella grande avventura dell’evangelizzazione significa vivere fedelmente e generosamente il proprio essere credenti con il desiderio di contagiare tutti coloro che ancora non hanno conosciuto l’amore.
L’anno paolino è occasione privilegiata per verificare l’anelito missionario che deve appartenerci per ripensare con serietà a forme di consacrazione che imitino in tutto il Maestro il quale per annunciare il Regno preferiva la strada al Tempio, le case dei peccatori alle scuole rabbiniche, i crocicchi delle vie ai ritrovi dei benpensanti. La strada, il viaggiare, la missione… sono i verbi e i sostantivi di ogni comunità: con quella grammatica Dio ci ha parlato mettendosi, Lui stesso in movimento donandoci il Figlio e lo Spirito e affidando anche a noi la Parola della riconciliazione; con quella stessa grammatica noi continuiamo a scrivere altre pagine di Vangelo in questo mondo bisognoso di ascoltarlo e di leggerlo in esempi viventi come Paolo e – speriamo – come noi.

 


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Afferrato e affascinato dall’amore del Crocifisso, Paolo intraprende i viaggi missionari con il preciso intento di portare ovunque la buona novella. Il racconto degli Atti descrive gli spostamenti, le città visitate, le reazioni delle diverse comunità… l’esperienza del giovane missionario. In questo resoconto avvincente ci si imbatte – nel mezzo del secondo viaggio missionario – in una battuta d’arresto dai toni chiaroscuri: il discorso di Atene. Paolo vi giunge dopo essere stato a Tessalonica e a Berea e ai suoi occhi la città costituisce il luogo ideale per vivere una particolare esperienza di evangelizzazione e di incontro fra fede e cultura in quanto, anche se già in declino, rappresenta un faro culturale per l’intero mondo ellenistico e non solo; la presenza di scuole filosofiche (epicurei, stoici…) e i culti alle diverse divinità costituivano per Paolo una vera e propria sfida.
       Il libro degli Atti nel capitolo 17 racconta l’esperienza dell’Apostolo con due differenti scansioni: nella prima è testimoniato l’ardore di Paolo che, al suo solito, valorizza sinagoga e piazza per presentare l’Evangelo suscitando l’interesse dei colti abitanti; nel secondo l’attenzione si fa ancora più dettagliata e sono gli stessi ateniesi ad invitare l’apostolo per approfondire ulteriormente l’argomento: ‘Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata da te? Cose strane ci metti negli orecchi; desideriamo conoscere di che cosa si tratta’(At 17,19-20).
    A questo punto Paolo inizia l’esposizione dell’argomento con una bella ed erudita trattazione facendo accostamenti a filosofi e poeti del luogo per dimostrare la verità su Dio e sulla storia della salvezza; sembra quasi un trattato di teodicea quello di Paolo, cioè il tentativo di spiegare con la ragione l’esistenza di Dio e le sue ragioni.     La predica è bellissima e ben impostata, ma ai presenti non interessa più di tanto: ‘Ti sentiremo su questo un’altra volta’ (At 17,33) è la triste conclusione della permanenza ateniese; solo alcuni aderiranno al Vangelo ma da lì in avanti non sapremo né di altre visite né di scritti indirizzati a quella comunità. Un fallimento dunque? E se è così perché ricordarlo?

Ho voluto riprendere l’episodio dell’areopago di Atene per sottolineare la necessità di accettare le sfide che si presentano e la capacità di rivedere metodi e scelte.
Innanzitutto è bello notare come Paolo non si sottragga alle sfide che il suo tempo gli presenta; Atene è un occasione ghiotta, la piazza, i luoghi di incontro e di confronto culturale altrettanto. In prima battuta Paolo non pensa all’esito ma all’opportunità. È profondamente convinto che il Vangelo deve entrare in ogni società ed in ogni cultura per fecondarla dall’interno. In questo è l’antesignano del progetto culturale e di qualsivoglia tentativo di inculturazione del Vangelo. Nella piazza, con lo stile del dialogo e del confronto, valorizzando gli strumenti e le conoscenze degli interlocutori, Paolo si esprime e annuncia. Esce allo scoperto, suscita interesse e curiosità; diventa punto di attrazione… ‘Vediamo cosa ha da dirci…’.
Questo aspetto estroverso della missione paolina è quanto mai attuale; tante piazze stanno aspettando la nostra presenza; in tanti confronti – purtroppo – siamo assenti; certo, è più facile annunciare il Vangelo a chi la pensa come noi, ma siamo proprio sicuri che funzioni così l’evangelizzazione? Oppure dovrebbe starci a cuore uno stile più estroverso che sa vedere nelle sfide delle possibilità e nel dialogo franco e intelligente la via maestra per entrare e portare il Tesoro? Saper parlare il linguaggio degli uomini è amore all’Incarnazione e solo quando anche noi – come il Verbo – sapremo calarci nella vita del nostro tempo renderemo efficace l’opera che ci è stata affidata. Paolo ci invita a riscoprire il fascino della strada e della piazza per saper leggere le tante sfide del nostro tempo, per dialogare con chi non la pensa come noi, per cercare di afferrare i segni della presenza di Dio nella storia ed in ogni umana esistenza. Cristiani aperti ed intelligenti, come Paolo capaci di far udire nelle piazze ciò che hanno ascoltato nel segreto.
Ma cosa accade dopo quell’episodio? Il testo degli Atti si limita a dire che Paolo da Atene si sposta a Berea e, in seguito, a Corinto dove si ferma circa un anno e mezzo. Non abbiamo notizie di una comunità cristiana ateniese né di una lettera dell’apostolo indirizzata a quella città (cosa che invece accadrà per quasi tutti i territori visitati da Paolo). È stato dunque un fallimento? È forse sbagliato tirare in ballo la cultura quando si annuncia il Vangelo? Prestando attenzione a ciò che ci dicono i testi (gli Atti e le lettere) dobbiamo ricavare una conclusione attenta; più che di un fallimento sarebbe opportuno parlare di una prima verifica che l’apostolo delle genti sente il bisogno di fare. In altri contesti userà un’espressione che ben si presta per spiegare quanto accade: ‘mi fermai per evitare di correre o di aver corso invano’. Ecco, Paolo sente il bisogno di fermarsi per evitare di incappare in esperienze infruttuose; si mette in discussione, interroga se stesso e la metodologia usata per capire cosa non ha funzionato, perché – se l’intuizione era buona – i risultati non sono arrivati. In questo modo ricorda ai cristiani di ogni tempo che, vero segno di grandezza e di maturità non è andare avanti ad ogni costo, ma saper sostare per vedere se le intuizioni si legano alla storia e alla ricca trama di Dio oppure sono espressioni di sterile orgoglio personale.
Ebbene, da quella verifica Paolo capisce che il suo coraggioso tentativo di incrociare la cultura del tempo mancava del vero scalpello in grado di incidere e creare capolavori: Cristo morto e risorto! Rileggendo attentamente il testo degli Atti ci accorgiamo che si dicono tante cose belle, valide e colte ma ci si dimentica di Colui che fa la differenza. Per usare le stesse parole di Paolo, non è la sapienza di parola che incide e cambia i cuori ma è l’incontro con la Parola della Croce che tutto rinnova e ricrea. Infatti, quando Paolo arriverà a Corinto dirà subito che l’unica cosa che egli sa è ‘Cristo e questi Crocifisso’, forse per alcuni pazzia e debolezza ma per chi crede sapienza e potenza di Dio. Questo non annulla affatto la necessità di una debita formazione culturale ma impone – semmai – che questa si coniughi con l’Evento del Golgota, poiché l’annuncio del Vangelo non è vuota dottrina ma relazione con chi rende autentico ogni sapere. Giovanni Paolo II ha sintetizzato l’intreccio fra fede e cultura (tema tanto vasto quanto affascinante) con l’immagine riportata all’inizio della lettera enciclica Fides et ratio: la fede e la ragione sono come le due ali di cui abbiamo bisogno per librare il volo verso il Cielo. È esattamente ciò che Paolo farà da qui in avanti mostrando un annuncio attento alle categorie culturali del tempo e impregnato della Divina Sapienza.
Mettendo insieme i due momenti dell’esperienza dell’Apostolo ad Atene ne ricaviamo un prezioso insegnamento: serve saper accettare le sfide che il nostro tempo ci presenta e – al tempo stesso – riuscire a verificare i passi fatti per saper camminare in Dio e secondo la sua volontà. È l’impegno di ogni cristiano, è la generosa vocazione di ogni persona consacrata.


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Dopo aver visto gli aspetti salienti della vita di Paolo e dei suoi viaggi missionari, vorrei dedicare questi ultimi contributi ad alcune riflessioni tematiche nel tentativo di sentire l’e sperienza dell’apostolo vicina a quella della nostra vita. Si tratta, come le altre volte, di considerazioni semplici che raccolgono alcuni passaggi delle lettere paoline e che arrivano a noi con la forza e con la freschezza di sempre.
La prima ed originaria riflessione vorrei dedicarla alla visione della fede in Paolo. Ognuno di noi si interroga quotidianamente sul proprio vissuto di fede, ci confrontiamo con le crisi di fede e facciamo i conti con i periodi di aridità in cui tutto ci sembra difficile. Ma per Paolo che cos’è la fede? Forse sarebbe più corretto chiedersi come egli viva questa dinamica tanto interessante quanto misteriosa. La categoria che più di ogni altra riesce a sintetizzare l’esperienza spirituale dell’apostolo è quella dell’incontro. Egli vive la fede come incontro con il Risorto; un incontro che ha avuto un momento iniziale sulla via di Damasco e che si è rinnovato nel tempo ed è stato sperimentato come quotidiano abitare la presenza del Signore Gesù.
Nella lettera ai Galati, ad una comunità sconvolta dalle richieste dei cristiani di matrice giudaica, Paolo racconta la propria vocazione rileggendo con sincerità disarmante il proprio passato di persecutore convinto della Chiesa. Ma c’è un momento in cui il Padre gli fa conoscere il Figlio (rivela), glielo fa incontrare, sperimentare in modo unico e profondo. Da lì tutto prende il via senza soste o perplessità. Da quell’incontro Paolo capisce che l’unica realtà che può riempirgli la vita è la vita stessa del Risorto amato, annunciato e testimoniato; ed è da lì che attinge forza ed entusiasmo per portare in ogni angolo della terra la Buona Novella fino a dare tutto se stesso.
Per Paolo, dunque, la fede non è nozione che riempie la testa, non è distanza o estraneità con l’Inconoscibile, ma è incontro fecondo, profondo e vero con una Presenza che si è fatta conoscere e che ha dato senso alla storia.
La fede di Paolo è vissuta più che descritta, è performativa (cioè cambia la vita dall’interno) più che informativa, e la sintesi mistica di questa esperienza la rintracciamo in un passaggio prezioso di Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (2,20). Ecco qui tutta la fede di Paolo: c’è innanzitutto la consapevolezza di essere stato messo in croce con il Crocifisso. Questo atto consuma la fine dell’uomo vecchio; Paolo si lascia inchiodare sull’unico trono che salva per scrivere la parola ‘fine’ su tutto ciò che non è secondo Dio. Liberato dal peccato capisce che l’unica via percorribile è quella dell’interiorizzazione del Mistero.
Non dice di voler vivere con Cristo, non si sente lui l’artefice del cammino di fede, ma umilmente riconosce che Cristo vive in Lui. Se l’uomo vecchio non trova più spazio in Paolo, tutto lo spazio della sua vita adesso è unicamente di Cristo. La vita di Paolo diventa segno sacramentale della vita di Cristo e del suo passaggio nella storia degli uomini. La fede per lui è il vivere, in modo rinnovato, la vita stessa del Cristo. Ha intuito che il Risorto gli ha dato fedeltà chiamandolo mentre egli era ancora nel peccato e al Risorto regala la sua fiducia come un bambino nei confronti della mamma. La fedeltà del Risorto incontra la fiducia di Paolo: ecco il miracolo della fede parla il linguaggio della vita e della fecondità.
Mi piace pensare che la frase appena commentata – ‘non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me’ – Paolo la ripetesse ogni istante della sua giornata e della sua vita; quando veniva portato in prigione o accusato ingiustamente, quando doveva scappare notte tempo perché perseguitato o quando veniva lasciato solo, quando era chiamato ad attraversare il mare in tempesta e quando veniva barbaramente ucciso… era il battito cardiaco del suo cuore. Questa la sua fede, la sua vita.
Con la forza delle sue intuizioni Paolo è certamente modello per la nostra esperienza credente. Cosa vuol dire per noi avere fede? Cosa dire a quanti chiedono ragione della nostra fede o della nostra consacrazione. Sarebbe bello immaginare che le annunziatine, i sacerdoti, ogni battezzato… alla domanda ‘che cosa vuol dire avere fede?’ riesca a rispondere con Paolo e come Lui: ‘Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me’.
All’inizio di un nuovo anno riprendiamo i nostri cammini fatti di fatica e speranza, di gioia e dolore… facciamolo con fede, con la fede di Paolo.

 

 


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Un argomento che sta particolarmente a cuore all’Apostolo Paolo è la comunione ecclesiale: “Un solo corpo ed un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un so­o Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,2-6). Da questo canto all’unità si capisce quanto Paolo lavori e s’impegni affinché i cristiani delle comunità da lui fondate vivano secondo il modello della prima comunità – ‘un cuor solo ed un anima sola’ – e rispondendo al comando del Divin Maestro: ‘Padre fa’ che siano una cosa sola’. In ogni lettera ci sono costanti richiami alla rete sottile e delicata della comunione spesso minata da pericoli. In particolare, vorrei accostarmi alla prima lettera ai Corinzi perché lì si possono individuare indicazioni di notevole spessore circa la comunione. L’architettura del testo di la Corinzi poggia sulla centralità del mistero pasquale come chiave di comprensione del vissuto della comunità: è alla luce di Cristo Crocifisso e Risorto che Paolo affronta le problematiche di Corinto aprendo orizzonti che superano la semplice soluzione dell’immediato.

Una delle prime tensioni che Paolo riscontra nella giovane comunità è quella (tanto antica e sempre nuova) delle divisioni interne: tra ricchi e poveri, tra carismatici e non, tra dotti e stolti… Se già subito, dopo il bel proemio, Paolo sente il bisogno di entrare nel merito della questione, vuol dire che questa era avvertita in modo pesante dalla comunità. Così Paolo si esprime: «Vi esorto… ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra di voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di intenti. Mi è stato segnalato a vostro riguardo… che vi sono discor­die fra di voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “io, invece, sono di Apollo”, “e io di Cefa”, “e io di Cristo”. Cristo è stato forse diviso?» (1 Cor 1,10-13).


La denuncia è chiara e forte: la comunità ha smarrito (o rischia di farlo) una delle note caratteristiche che la compongono: la comunione (koi­nonia, come si esprime At 2,42 insieme alla fra­zione del Pane, all’ascolto della Parola ed alla preghiera). Indebolendosi questa si producono alcuni effetti nefasti: le discordie (il termine usato – schi­smata, da cui scisma – sa di lacerazioni profonde), i personalismi esasperati che ragionano con l’«io» e dimenticano il «noi» e lo svuotamento della Croce (‘Cristo è stato forse diviso?’).
La posta in gioco, dunque, è tutt’altro che banale e l’apostolo sa bene che se la comunità perde di vista la forza unificante della comunione, perde totalmente se stessa e diventa un’altra cosa; per questo motivo, subito dopo la denuncia iniziale, inizia a sgombrare il campo da tutto ciò che distrugge la comunione e a presentare, in positivo, i punti di forza che la rendono possibile; tra questi vorrei sottolinearne due in particolare: l’immagine del corpo (cap.12) e la carità (cap.13).
Le due realtà sono intimamente connesse fra di loro: nella misura in cui ci sentiamo corpo di Cristo e consentiamo a questo corpo di essere animato da una carità operativa e costruttiva (‘la carità è paziente, benigna, non è invidio­sa…’) rendiamo visibile il volto autentico della Chiesa e del suo Signore. Vorrei qui riprendere, brevemente, l’immagine del corpo perché esprime molto bene il cammino della comunione.

Il cap 12 è tutto attraversato da questo felice paragone: “Come il corpo, pur essendo uno ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo”. Attraverso questa porta solenne Paolo entra per analizzare il corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. Ma come sentirsi corpo? Paolo risponde con tre sottolineature: a) il senso di appartenenza; b) avvertire il bisogno dell’altro; c) prendersi cura di ogni membro. Sono i gradini essenziali della comunione: anzitutto serve sentirsi parte di un corpo più ampio e sentire che questo corpo ci appartiene; sentendosi parte si capisce che l’altro non è un peso, ma è ciò di cui io ho bisogno per essere; e se è così me ne devo prendere cura amorevolmente. È evidente che l’immagine del corpo serve a Paolo per presentare la realtà della Chiesa; tuttavia vorremmo, per un istante, tentare di leggere – attraverso di essa – la realtà dell’Istituto di cui facciamo parte. Com’è la comunione che viviamo nei nostri gruppi, fra i no­stri gruppi e le parrocchie, fra le singole persone di ogni gruppo...? Forse dovremmo chiederci con Paolo se vi sono discordie fra di noi e se a forza di ragionare in modo polare – per oppo­sizione più che per comunione – non rischiamo di smarrire in modo pericoloso la nostra profonda identità. Si tratta di capire se ad animare i nostri gruppi è la comunione più vera, quella che sa fare dello stare insieme (cum) il suo compito primario (munus), quella che costruisce ponti più che alzare barricate, quella che accoglie più che respingere, quella che unisce più che dividere, quella che armonizza un unico corpo più che esaltare qualche singola parte. È dono di Dio la comunione, ma anche impegno faticoso di tutti e di ciascuno; si realizza se lo vogliamo e se siamo capaci di spenderci per essa, se riusciamo a sentirci parte di una bella realtà in cui il buon Dio ci ha voluti, se riusciamo ad amare le persone che ci sono state poste accanto e se di esse riusciamo a prenderci cura.
Chiediamo al Signore, per l’intercessione di S. Paolo e del Beato Giacomo Alberione, il dono di una comunione autentica che ci faccia essere corpo robusto e sano che sa diffondere il buon profumo di Cristo.

 


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La lettera ai Galati

Imbattendosi nella lettera ai Galati si rimane come travolti dalla forza di pensiero e di parola che l’autore usa per cercare di recuperare in extremis le comunità della Galazia (Asia Minore) disorientate da predicatori che, subito dopo la sua partenza, proponevano l’adesione ad ‘un altro Vangelo’ imponendo la necessità del passaggio attraverso le opere della Legge prima di poter aderire a Cristo.
Paolo entra subito nel cuore della questione e lo fa offrendo(ci) le motivazioni del credere; il motivo dominante è quello del Vangelo, dell’evento – Cristo – che ha rivoluzionato i canoni ormai aridi della Legge e delle sue opere. Paolo, per primo, ha sperimentato che di fronte alla novità di Dio manifestatasi nel volto di Cristo tutto il resto diventa secondo e non può più determinare situazioni vincolanti. Dalla novità del Vangelo inizia il cammino di Dio verso l’uomo (la fedeltà del dono) e quello – altrettanto affascinante – dell’uomo verso Dio (attraverso la fede che opera nella carità).

La lettera ai Galati diventa lo specchio di questo procedere e presenta i momenti salienti della vita di fede: la libera iniziativa di Dio, la dimensione profonda della fede, il rapporto con la Legge, la nuova identità di figli (nel Figlio), la libertà e la vita nello Spirito. Un passo dopo l’altro per arrivare a considerare la piena maturità cristiana. Uno dei vertici più alti dello scritto Paolo ce lo offre alla fine del secondo capitolo: ‘Sono stato crocifisso con Cristo, non sono più io che vivo ma Cristo vive in me, questa vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio’. Poiché su questo passaggio abbiamo già riflettuto in un precedente contributo, vorrei dedicare lo spazio che ci rimane ad una riflessione sulla libertà cristiana.
L’apostolo non vuole assolutamente mettere in discussione l’impianto normativo della Torah, ma lui per primo ha sperimentato che da quello non arriva alcuna salvezza o giustificazione; solo l’adesione a Cristo, attraverso una fiducia incondizionata che opera per mezzo della carità, può creare le condizioni per sentirsi veramente nuovi. Paolo sintetizza il valore della Legge e delle sue opere nell’immagine del pedagogo o del maestro chiamato a guidare il bambino nei suoi primi passi; arriva, però, il momento della piena maturità in cui il pedagogo si ringrazia, ma senza sentirsi dipendenti da lui. Per il cristiano la maturità è Cristo e il rapporto integrale con Lui la condizione per giungere alla salvezza. Dunque, non più schiavi della Legge, ma figli liberi per i meriti di Gesù Crocifisso. Ma potrebbe un simile modo di ragionare dare adito ad una libertà senza àncore? Visto che siamo figli possiamo fare tutto ciò che vogliamo? E – soprattutto – chi guida la nostra libertà?
Alla libertà cristiana Paolo dedica gli ultimi capitoli della lettera presentando, quasi, uno statuto epistemologico della nuova condizione. Innanzitutto ci ricorda che i cristiani prima ancora di essere liberi sono ‘liberati’: “Cristo ci ha liberati per la libertà!... Voi fratelli siete stati chiamati a libertà”. La libertà, così presentata, non è un assoluto, ma un dono che un Altro ci ha meritato, una profonda vocazione che segna un orientamento preciso nella misura in cui non si perde di vista la Sorgente. Se Cristo ci ha liberati, è in Lui che trova spazio la nostra libertà, anzi, è Lui la nostra libertà; è Lui che la rende possibile ed autentica. In Lui comprendiamo che non possiamo usare la libertà come pretesto per fare ciò che ci passa per la testa, altrimenti la trasformiamo in miserrima schiavitù (e sono sotto gli occhi di tutti i risultati di una libertà sfigurata dal libertinaggio).
Ma come fare perché si mantenga alto il profilo della libertà cristiana? Possiamo farcela con le nostre sole forze? Nello stesso cap. 5, in cui Paolo presenta il valore della libertà redenta, inserisce una riflessione sul frutto dello Spirito, quasi ad indicare che è Lui il Maestro interiore che ci guida, affinché la libertà non ci porti a soddisfare i desideri del peccato, ma a realizzare il progetto di Dio. Il frutto dello Spirito è il frutto maturo della libertà, è lo spazio vitale e puro in cui il cristiano si muove. Nella descrizione del frutto dello Spirito, Paolo indica le grandi autostrade della libertà: amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge perché c’è solo libertà. Una libertà, dunque, che si coniuga attraverso i verbi impegnativi dell’amore e del bene, che si colora di fedeltà e bellezza, che riesce ad uscire da sé per ricercare – nella larghezza d’animo – il bene dell’altro. Un programma di vita… un programma di felicità.
Alle Annunziatine, ad ogni battezzato risuonano forti le parole di Paolo sulla libertà perché se nessuno mette in dubbio che apparentemente non ci sono limiti alla libertà, forse, dovremmo riconoscere di essere un po’ lontani dall’ideale appena tracciato: troppi schematismi ci imprigionano, troppe prassi sterili ci bloccano, troppi pregiudizi ci fanno restare piccoli. Serve, alla nostra realtà (ecclesiale, di gruppo, di Chiesa…), uno slancio di libertà attraverso una rinnovata primavera dello Spirito in cui ogni figlio si sente accolto, amato e sostenuto; servono dinamiche più snelle e gambe più robuste per portare all’esterno la Buona Novella del Regno; serve imitare Cristo, l’uomo libero non perché ha fatto ciò che gli è piaciuto, ma perché gli è piaciuto fare ciò che il Padre gli chiedeva.
Guardando Lui saremo veramente liberi come cristiani e come Chiesa; contempliamolo mentre ricorda ai suoi discepoli: “La verità vi farà liberi”.

 


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Nel precedente contributo abbiamo cercato di mostrare l’interessante itinerario teologico che Paolo offre alla comunità di Roma in attesa di una sua visita. Dal tema della giustificazione che riguarda l’umanità peccatrice, a quello della salvezza offerto a coloro che sono stati resi giusti fino all’impegno morale, al fine di saper offrire tutta la vita come ‘sacrificio vivente santo e gradito a Dio’.
Nell’esposizione di questo ‘Vangelo’ (in senso Kerigmatico) lo snodo più importante è – a mio avviso – la vita nello Spirito che Paolo presenta al cap. 8 (la cui lettura integrale suggerisco in una dinamica di meditazione della Parola). Il principio da cui muove Paolo è che lo Spirito di Dio abita in noi e che noi, in virtù di questa Presenza, possiamo camminare in una vita nuova.
Già al capitolo sesto, parlando del Battesimo, aveva invitato la comunità a prendere coscienza che con l’immersione piena nel mistero di Cristo (questo comportava il lavacro battesimale) si era morti al peccato e risorti a nuova vita. Adesso Paolo ritorna sull’argomento perché è profondamente convinto che tutta l’opera salvifica di Dio a nostro favore (redenzione, salvezza, perdono dei peccati…) rischia di rimanere lettera morta se non è da noi interiorizzata. Serve, cioè, un principio interiore che rende solido il dono di Dio in noi, stabile, permanente, perennemente valido. E poiché la nostra natura risente molto di una certa incostanza il Padre, nella Sua infinita bontà misericordiosa, ci ha donato lo Spirito che è la Sua stessa potenza in noi. Sappiamo bene come lo Spirito è proprio la Forza di Dio dentro di noi. Lo abbiamo ricevuto con il Battesimo, ci è stato confermato con la Cresima, ne sentiamo la presenza ogni volta che celebriamo l’Eucarestia. Ecco, prendere coscienza di questa presenza, farla maturare in noi, consentirLe di lavorare dentro la nostra vita è il principio della vita spirituale. Vivere da persone spirituali significa prendere coscienza di questa Presenza ed assecondarla in tutto.

Nell’ottavo capitolo della lettera ai Romani Paolo ci mostra alcuni passaggi che qui brevemente richiamo. Innanzitutto il fatto che la legge dello Spirito ci scalza dalla legge del peccato. Cioè, sapere che dentro di noi c’è Dio all’opera, annulla la spinta al peccato per cui questo non è più una legge, una necessità, un obbligo.
Al limite (ci auguriamo il meno possibile) è un breve incidente di percorso, ma non certo la regola di vita, l’obbligo assoluto. La forza di Dio dentro di noi è molto più potente del pungolo della tentazione che – proprio con quella Forza – può essere allontanato e sconfitto. Conseguenza di ciò è il fatto che nella vita quotidiana dovremmo fare molta attenzione a non assecondare i desideri della carne, dell’uomo vecchio, della tentazione.

Cioè non possiamo prestare il fianco al peccato altrimenti ricadiamo nelle logiche perverse del male. Coloro che si impegnano a portare avanti una seria vita spirituale (cioè animata dallo Spirito) si impegnano a vigilare attentamente affinché a prevalere non siano i desideri del peccato, ma i desideri alti di Dio. Se ci alleniamo in questo, iniziamo a sentire già il profumo del cielo.
Paolo, continuando l’esposizione del tema, afferma con forza: ‘Sono convinto che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi’. Cioè, chi vive nello Spirito e di Spirito, poiché vive in Dio, guarda in avanti, è proiettato decisamente verso le cose ultime; osserva le penultime con il necessario distacco, sa che il suo cuore e tutta la sua vita è sbilanciata verso il Cielo ed affronta la fatica della terra sapendo di dover far giungere, in ogni frammento di umanità, un raggio della Bellezza di Dio.
La persona spirituale per questo è capace di affrontare l’orizzonte delle cose terrene con serenità; è consapevole che tutto concorre al suo bene perché si sente amata da Dio. Anche i tornanti più difficili è in grado di leggerli armoniosamente vedendo l’impronta di Dio in ogni cosa. È persona che sa costruire futuro ed eternità perché li sperimenta dentro la propria limitata esistenza.
Non si accoda al coro di coloro che si preoccupano solo delle cose della terra, delle cose che passano, delle cose effimere. E se questo vale per ogni battezzato, vale molto di più per  noi persone consacrate; per eccellenza noi siamo chiamati ad essere spirituali, a far trasparire l’Orizzonte di Cielo che ci ha investito.
Dunque, la dimensione spirituale non è questione di qualche postura da tenere in Chiesa e non è nemmeno condizione da mantenere durante un corso di esercizi spirituali, ma è stile di vita, è vita alla presenza di Dio, con lo Spirito nel cuore e sulle labbra, è contemplazione del Mistero e azione impastata di Mistero, è anelito costante, è futuro mentre si abita il presente… tutto questo è vita nello Spirito e mentre volge al termine l’anno paolino chiediamo l’intercessione del grande Apostolo delle genti per vivere come Lui, per essere, in tutto, conformi a Cristo via, verità e vita.

 


9

Nel corso dell’Anno Paolino don Baldo ha curato questa rubrica dedicata all’approfondimento della figura di Paolo e di alcuni temi fondamentali della sua teologia. Lo ringraziamo vivamente per la competenza e la preparazione con le quali ha affrontato i diversi argomenti nonché per tutti gli stimoli concreti che a partire da essi ha lanciato alla nostra vita. Il Signore lo ricolmi di ogni benedizione.

Sul finire della lettera ai Romani (dal cap. 12 al cap. 16) Paolo si sofferma su alcuni aspetti che riguardano la vita morale del credente.
È nello stile di Paolo inserire dopo la parte dottrinale – in cui vengono esposte le verità di fede – tutto ciò che ha a che fare con la vita concreta (il modo di agire, di parlare, di relazionarsicon le autorità…). In questo modo l’apostolo crea continuità e relazione tra la fede professata e la vita vissuta ritenendo che la prima è morta se non è applicata nella seconda.
Nella lettura di queste pagine si nota una certa ‘accelerazione’ nel testo; Paolo sembra voler inserire quante più indicazioni possibili. Il periodare è breve, espresso per lo più con degli imperativi, e sembra sfuggire a qualsivoglia struttura letteraria perché all’apostolo interessa, in realtà, abbracciare tutti gli aspetti dell’agire umano e tutti raccordarli in Cristo. Dalle ultime pagine della lettera ai Romani vorrei qui, mettere in risalto due passaggi. Il primo è quello che apre il cap. 12: “Vi esorto, fratelli, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”.
Dopo aver riflettuto sulla giustificazione e sulla salvezza, adesso Paolo invita la comunità di Roma ad una vera e propria rivoluzione copernicana poiché quel Dio che ci ha raggiunto attraverso la concretezza di un corpo (quello del Figlio) ci chiede di seguire la stessa pedagogia: è solo nell’offerta del corpo (quello nostro), della concretezza della vita, delle asperità della storia che noi possiamo legarci a Dio. Troppo facile offrire cose esterne a noi; oggettivare il culto, sentirsi spettatori plaudenti ma mai coinvolti.

Adesso il culto spirituale è proprio il sacrificio del nostro corpo donato, di tutto ciò che fa parte del nostro vivere santificato dal sacrificio di Cristo sulla croce e chiamato a diventare esso stesso sacrificio (sacrum facere) vivo, santo e bello agli occhi di Dio.
In altre parole, Paolo ci sta ricordando che il vero Tempio in cui incontriamo e celebriamo Dio non è quello fatto da mura e statue ma è quello del nostro corpo lavato dal sangue di Cristo, da Lui riscattato e santificato dalla presenza dello Spirito Santo. La partita ce la giochiamo non nell’oretta della messa, o nelle preghiere recitate in fretta e furia ma in tutte le ore faticose del giorno, quando – sentendoci protagonisti coinvolti – offriamo tutto a Dio; diventerà culto spirituale il mettersi in treno alle 5 del mattino, stirare a casa, sudare sui campi, andare a scuola…Una vita cristiana così diventa affascinante e la nostra tensione spirituale non sarà questione di collo storto in Chiesa (magari per farci vedere da qualcuno), ma di spina dorsale dritta lungo le strade polverose della storia.

Questo tipo di scelta richiede – secondo Paolo – un duplice movimento; da una parte serve convertire, cambiare la propria mentalità ed orientarla verso quella evangelica, dall’altro è necessario prendere le distanze dal modo di pensare del nostro tempo, fatto di comodità, di opportunismo, di poco impegno… Ecco perché don Giacomo Alberiore invitava i suoi a vivere in “una continua conversione” perché l’offerta della vita come sacrificio gradito a Dio è scelta che richiede, attimo dopo attimo, il coinvolgimento attento della mia libertà e della mia responsabilità. Legato a quest’aspetto Paolo presenta l’urgenza della carità, vera sintesi della Legge infatti “non uccidere, non rubare…e qualsiasi altro comandamento si ricapitola in questa parola: amerai il prossimo come te stesso” (13,9). L’invito di Paolo qui mantiene la sincerità prima esposta a proposito del sacrificio. Come quello anche la carità deve essere vera e l’apostolo sente il bisogno di consegnare un invito quanto mai attuale: “La carità non sia ipocrita!” (12,9). Si, perché anche sulla carità possiamo fare belle poesie ed interessanti convegni mentre la gente non ha di che mangiare e la dignità di tanti è ancora calpestata. L’amore è adesione al bene, anzi, a Dio che è Sommo Bene ed in Lui capacità di farsi ‘bene’ per gli altri, diventando dono, offerta, presenza, amicizia. Anche Paolo come Gesù, dovendo fare sintesi di tutto, ci ricorda che ciò che veramente conta e rimane è la carità vera ed operosa (come abbiamo già visto commentando l’inno all’amore di 1Cor 13). È interessante, a questo proposito, notare il nesso fra vita morale e amore perché in fondo, la prima non è l’insieme di cose da fare o evitare, ma è stile di vita improntato all’amore. La qualità morale della nostra vita è stabilita dall’intensità di amore (verso Dio e verso il prossimo) che ci mettiamo dentro.
La verità del culto attraverso il sacrificio vivente del nostro corpo; la verità della carità attraverso la sincerità di una vita spesa a ricercare il bene e a realizzarlo. A pensarci bene entro queste due coordinate si disegna la nostra vita morale; è un po’ la nostra croce con il braccio lungo e verticale del sacrificio della vita, che si fa vita, che si unisce alla Vita e con il braccio allargato e orizzontale (quasi a costituire un abbraccio) della carità vera con cui amiamo seminando vita eterna.
Questa Parola è indirizzata alla nostra vita di persone consacrate e ci mette davanti lo specchio della nostra consacrazione: un corpo (il nostro) che si fa sacrificio ed una offerta (quella della nostra vita) finalizzata all’amore. Qui mi pare di individuare veramente l’essenza di ciò che noi siamo e di ciò che vogliamo realizzare.
La Vergine del ‘sì’ che ha offerto se stessa come sacrificio vivente e ci ha insegnato ad amare, sostenga il nostro cammino verso una vita consacrata veramente santa.


 

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