La risposta ce la offre il nostro Fondatore: « Tutti devono considerare solo come padre, maestro, esemplare, fondatore, S. Paolo Apostolo. Lo è
infatti. Per lui la Famiglia Paolina è nata, da lui fu alimentata e cresciuta, da lui ha preso lo spirito » (AD, 2).
Ancora: «S. Paolo è il discepolo che conosce il Maestro Divino nella sua pienezza; egli lo vive in tutto; ne scandaglia i profondi misteri della dot del cuore, della santità, della umiltà e divinità, lo vede dottore, ostia, sacerdote e ci presenta il Cristo totale,come già si era definito Via,Verità e Vita» (AD, 159).
Infine: « S. Paolo: il santo dell'universalità! ... La Famiglia Paolina ha una larga apertura verso tutto il mondo, in tutto l'apostolato... nell'unico apostolato " far conoscere Gesù Cristo ", illuminare e sostenere ogni apostolato ed ogni opera di bene; portare nel cuore tutti i popoli; far sentire la presenza della Chiesa in ogni problema... » (AD, 64-65).
Con queste parole Don Alberione ci indica i motivi principali per cui S. Paolo è l'ispiratore della nostra vita consacrata ed apostolica. Paolo conosce
e vive il Maestro Divino e presenta agli uomini il Cristo totale.
In S. Paolo noi possiamo scoprire l'essenza e la dinamicità dell'apostolato.
L'APOSTOLO
È UN CHIAMATO DA DIO
Prima di presentare le caratteristiche dell'apostolato di Paolo, occorre fare una precisazione: il modello originario dell'apostolo è la vita trinitaria, l'amore fontale del Padre che si dona al Figlio e ambedue si donano nello Spirito Santo. La partecipazione dell'uomo a questo amore divino, Dio ha voluto realizzarla con l'inviare il Figlio la cui incarnazione fu operata dallo Spirito Santo. Cristo, il mandato, è l'unico vero " apostolo " (cf Eb 3,1), l'autore e il modello di ogni apostolato. D'altra parte S. Paolo ci presenta un'esperienza di fede e di apostolato fatta a misura d'uomo e traccia con la sua vita un disegno dell'apostolo assolutamente straordinario.
In quasi tutte le Lettere si presenta in modo chiaro e inequivocabile come « l'apostolo... per volontà di Dio » (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1) e rivela con grande sicurezza la sua dipendenza spirituale dal Cristo « chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo » (1 Cor 1,1).
La sua incombenza apostolica, quella di predicare il Vangelo, non gli è stata affidata da uomini, ma gli proviene da Gesù Cristo, apparso a lui sulla strada di Damasco perché divenisse « araldo, apostolo e maestro » (2 Tim 1,11), e gli proviene anche da Dio, il quale dopo averlo " segregato " dal seno di sua madre ed averlo chiamato con la sua grazia, si compiacque di rivelare in lui suo Figlio, perché lo annunciasse in mezzo ai Gentili (cf Gal 1, 15-16).
Notiamo subito che la chiamata all'apostolato è venuta immediatamente da Dio, senza altro intermediario che il Cristo: « Apostolo... non per mezzo di uomo, ma per mezzo di Cristo » (Gal 1,1); per questo Paolo sente il dovere di prendere le dovute distanze da ogni umana dipendenza.
Quindi la vocazione all'apostolato non è una scelta dell'uomo. È risposta libera alla chiamata e al lavoro dello Spirito: « Lui che ci ha pure segnati del suo sigillo e ha deposto la caparra dello Spirito nei nostri cuori » (2 Cor 1,21-22); Spirito che prevede, predestina, chiama, fortifica, spinge, accompagna fino al compimento dell'opera, che dovrebbe coincidere con il termine della vita. « Coloro che ha preconosciuti - egli scrive -, li ha anche predestinati... Quelli che ha predestinati, li ha anche chiamati; e quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati; quelli infine che ha giustificati, li ha anche glorificati » (Rom 8,29-30).
Ricordiamo ancora le bellissime espressioni con le quali Paolo celebra la grandezza del ministero apostolico: « ministero dello Spirito e della giustizia » (cf 2 Cor 3,8-9), e ancora più edificante la espressione: « luce illuminante » (cf 2 Cor 4,6). Ora, dal momento che il mandante della sua missione è Dio, Paolo non si appella ad altri se non a Dio, non certo per arrogarsi un onore, ma per esercitare un dovere. Egli è ben consapevole della sublimità del mandato, ma è soprattutto consapevole che è un mandato di servizio. Per questo si preoccupa di una sola cosa: del fatto di essere stato scelto da Dio in mezzo a tanti uomini per annunciare Cristo e per trasmettere agli uomini i frutti del suo sacrificio redentore.
Ciò vuol dire che il Signore ha mostrato fiducia in lui, quindi non c'è posto per lui per considerazioni estranee a questo servizio: i rischi, la fatica, l'incertezza, il fallimento, dal momento che Cristo gli è apparso, lo Spirito lo ha trasformato, Dio lo ha mandato.
L'APOSTOLO TESTIMONIA
IL CRISTO SOFFERENTE E CROCIFISSO
Paolo considera la propria missione apostolica alla luce della croce: il mistero della croce rivive profondamente nell'esperienza dell'apostolo: « Egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la virtù di Dio, e anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo insieme con lui per la potenza di Dio » (2 Cor 13,4).
Il compito dell'apostolo non si esprime nella magnificenza e nella glorificazione, ma nella debolezza, nelle difficoltà, nei disagi che per Paolo rappresentano un motivo di vanto: « Io mi compiaccio nelle debolezze, nelle ingiurie, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle strettezze (sofferte) per Cristo. Infatti quando sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor 12,10).
Ecco formulata la legge fondamentale dell'apostolato, che è una delle intuizioni più felici e profonde di Paolo. La motivazione è chiara: « .., noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi » (2 Cor 4,7). Il paradosso della vita apostolica è che il tesoro datoci da Dio rimane nascosto in un'esistenza fatta di debolezze.
L'apostolo non solo è ben lieto di soffrire persecuzioni e catene, ma è convinto che le sofferenze della sua carne e del suo spirito contribuiscono al bene comune: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne, quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa » (Col 1,24).
Gli apostoli di tutti i tempi sono chiamati a questa funzione complementare di sofferenze e di fatiche che hanno valore soltanto se congiunte alle
sofferenze di Cristo; quindi anche l'apostolo è un " corredentore " e un " consalvatore " e contribuisce al bene della Chiesa.
Paolo realizza, nella sua vita apostolica, la missione di Cristo, e questa lo immerge nelle difficoltà interiori ed esteriori che la sequela della croce comporta. Nel proprio corpo conserva lo stato di Gesù morente, perché si manifesti la vita di Gesù; in unione con Cristo egli è un donatore di vita spirituale « e così in noi agisce la morte e in voi la vita » (2 Cor 4,12).
L'apostolo per Cristo si getta allo sbaraglio e quando è necessario, è pronto a pagare di persona. Per questo egli accetta l'insuccesso e le difficoltà, ed anche lo " stimulus carnis ": « E per l'eccellenza delle rivelazioni, perché non andassi in superbia, mi fu data una spina nella carne » (2 Cor 12,7).
Con queste parole Paolo rimanda ai segni della croce visibili nella sua vita e nel suo corpo. Il Cristo crocifisso è la massima espressione di donazione, e chi vuol fare l'apostolato deve entrare in questa logica della sofferenza, diversamente non potrà mai comprendere la propria esperienza di chiamato al servizio di Cristo.
L'APOSTOLO SERVO DEL SIGNORE
NELL'UMILTÀ
Accettando il Cristo " crocifisso ", ogni apostolo accetta la via dell'abnegazione, dell'umiltà, e Paolo ce ne lascia l'esempio. Per essere fedeli alla nostra missione, basta ricordare il suo comportamento ed imitarlo: « Voi sapete in quale maniera io mi sia comportato con voi..., servendo il Signore in tutta umiltà, con lacrime, in mezzo a tante prove » (At 20,18-19).
Nella Lettera al Filippesi Paolo esorta i cristiani e, quindi, a maggior ragione gli apostoli, a « non far niente per spirito di parte o per vanagloria, ma con tutta umiltà ciascuno consideri gli altri superiori a se stesso » (2,3).
L'umiltà, per l'apostolo, si traduce in uno stile di vita, in un atteggiamento affabile, in un giudizio col quale ci si stima inferiori agli altri: « Ciascuno stimi gli altri più degni d'onore » (Rm 12,10). Il concetto che Paolo ha dell'umiltà si armonizza perfettamente con l'altissima idea che ha della missione a lui affidata; benché fosse indegno, Dio lo ha scelto come testimone del Cristo risorto: « Infine... è apparso a me, come all'aborto. Io sono infatti il minimo degli apostoli » (1 Cor 15,8-9).
Commovente umiltà di Paolo! Di fronte alla grandezza del ministero apostolico, egli si professa il minimo di tutti. Se malgrado tutto, egli è stato scelto, lo deve unicamente alla bontà di Dio. « La grazia del Signore ha sovrabbondato in me » (1 Tm 1,14). Tutto noi abbiamo ricevuto da Dio e dagli altri, niente abbiamo di nostro: « Infatti che è che ti distingue? Cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? » (1 Cor 4,7).
Tutto ciò che legittimamente può renderci fieri, l'abbiamo ricevuto da Dio. Tale convinzione non ci permette di mostrarci orgogliosi con chiunque. Se siamo veramente consapevoli della nostra totale dipendenza dalla grazia divina, dobbiamo sentirci e farci piccolissimi sia dinanzi a Dio, che agli uomini.
Ecco come si presenta Paolo a chi l'ascoltava per la prima volta: « ... quando venni tra voi non mi presentai ad annunciare il Vangelo di Dio con sublimità di linguaggio e di sapienza. Perché in mezzo a voi preferii di non sapere altro che Gesù Cristo, anzi Gesù Cristo crocifisso » (1 Cor 2,1-2); il suo è l'atteggiamento umile di chi testimonia soltanto il Cristo Crocifisso.
L'APOSTOLO SERVO DEL SIGNORE
NELLA POVERTÀ
Paolo insiste su un'altra qualità dell'apostolo: la povertà e il disinteresse. In lui è forte l'appello al distacco dai beni materiali. Le sue mani sono quelle di un operaio, incallite e rovinate dalla fatica, perché egli « non ha desiderato né argento né oro » (cf At 20,33-35). In questo notiamo la radicalità della sua scelta; c'è in lui un distacco assoluto da tutti quei beni che non siano i beni del mondo futuro, ai quali aspira con ogni fibra dell'animo.
Paolo ha lavorato durissimamente: « Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno » (2 Tes 3,8); e questo l'ha fatto per non essere di carico a nessuno e per mostrarsi completamente disinteressato; comportandosi in modo da essere d'esempio a tutti i cristiani, egli intende anche esortarli a guadagnarsi col sudore del proprio lavoro il pane che mangiano. Non bisogna avere nessun debito con coloro ai quali si annuncia il Vangelo. Il comportamento dell'apostolo deve convincere gli ascoltatori che tutto vien fatto nel più estremo disinteresse; solo così si può facilitare l'adesione al messaggio che si annuncia.
L'APOSTOLO SERVO DEL SIGNORE NELLA CARITÀ
Su questa lezione di disinteresse s'innesta di conseguenza una lezione di carità; carità che è una qualità superiore al disinteresse. « Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature... Voi ricordate infatti la nostra fatica e il nostro travaglio, lavorando notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno, vi abbiamo annunciato il Vangelo » (1 Tes 2,7-9).
Paolo è convinto che la radice dell'apostolato è l'amore: « L'amore di Cristo ci spinge » (2 Cor 5,14).
La Lettera ai Romani presenta questa carità come un dovere: quello che obbliga il cristiano a imitare l'esempio di Cristo. Ancor più degli altri, gli apostoli devono imitare nel proprio comportamento la carità di Cristo: « Ognuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene... Siate accoglienti gli uni verso gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio » (Rm 15,2-7).
La regola suprema per la condotta dell'apostolo è l'esempio di Cristo. Questa carità verso il prossimo non nasce unicamente dal desiderio di assicurarsi la ricompensa eterna; l'apostolo prova dentro di sé la stessa premurosità di Dio. Paolo vuol insegnarci che tutti i valori umani hanno una sintesi che li realizza e li mette nella loro giusta graduatoria: la sintesi dell'amore: « Non abbiate altro debito con nessuno, se non quello dell'amore scambievole » (Rm 13,8). L'amore tutto compie e tutto vivifica in Cristo: « La carità non viene mai meno » (1 Cor 13,8).
Accettando il Cristo " crocifisso ", ogni apostolo accetta la via dell'assunzione dell'altro con tutti i suoi limiti, sente il bisogno di abbracciare nell'amore tutti gli altri, come Cristo, che sulla croce abbraccia l'universo e fa nascere dal suo cuore crocifisso la Chiesa (cf 1 Cor 1,17-18; 2,1-5).
Quindi soltanto rimanendo fedele al Cristo crocifisso, ogni rivalità viene vinta dalla forza dell'amore, di cui la Croce è il simbolo parlante.
L'APOSTOLO È APERTO A TUTTI
Paolo può definirsi il vero annunciatore ecumenico, perché sente fortemente in sé l'urgenza di indirizzare il messaggio salvifico a tutti gli uomini:
« Ora c'è gente che invoca il nome del Signore nei nostri e in tutti i luoghi » (1 Cor 1,2).
La coscienza apostolica universale di Paolo deriva dal suo contatto vitale col Cristo: « Ricevemmo la grazia e l'apostolato per sottomettere alla fede, nel nome di lui tutti i gentili » (Rm 1,5). E con la sensibilità di Cristo egli sperimenta, nell'intimo della sua coscienza, questo bisogno di evangelizzazione universale: « Colui che... mi chiamò per grazia sua e si compiacque di rivelare in me il suo Figlio, perché lo annunziassi in mezzo ai gentili » (Gal 1,15-16).
Solo una coscienza così forte e così universale, (cf Ef 3,8; Fil 1,16) dà a Paolo la forza di mettere a disposizione totale del Cristo e degli uomini la sua vita e di accettare per l'apostolato ogni tipo di lotta. È fondamentale mettere in rilievo questo: la visione e l'urgenza del " tutti ", che prende così profondamente Paolo e lo caratterizza nella sua azione, è determinata dalla sua spiritualità: è il suo specifico rapporto col Cristo che mantiene viva in lui l'istanza del " tutti "; il suo rapporto col Cristo decide il suo rapporto con gli uomini.
|