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Beato Giacomo Alberione, Eliseo Sgarbossa Il Sacerdozio di don Alberione Il beato don Giacomo Alberione (1884-1971) è noto come "il profeta della moderna evangelizzazione mass-mediale". Ma è anche riconosciuto come uno dei più fecondi e creativi fondatori di istituzioni religiose, avendo dato vita alla Famiglia Paolina. Meno nota è la storia del suo sacerdozio come prete di Alba (Cuneo): la sua formazione, il suo modo di vivere il presbiterato e la sua proposta di un tipo nuovo di ministero sacerdotale, a partire dall’agosto 1914, quando dette inizio alla fondazione della Famiglia Paolina. Una vocazione precoce Un dato ci appare subito evidente, che non fu mai posto in discussione: la precocità e la chiarezza della sua vocazione sacerdotale, fin dalla primissima età: «Un giorno dell’anno scolastico 1890-1891..., secondo interrogato, rifletté alquanto, poi si sentì illuminato e rispose risoluto...: Mi farò prete... Era la prima luce chiara...» (Abundantes Divitiæ 9). Da anziano don Alberione ricorderà con gratitudine il dono di quella "luce chiara" percepita verso i sei-sette anni, che lo guidò tra gli ostacoli della formazione, fino alla sua più tarda anzianità e al coronamento della sua vita sacerdotale. Ma le sue note autobiografiche rivelano, con altrettanta chiarezza, una realtà che non va sottovalutata: la crisi giovanile. Ne determinò la sua espulsione dal Seminario di Bra, e che tanto profondamente incise nella sua psicologia, da segnarlo per sempre con le stigmate del "convertito" e condizionarne il successivo orientamento vocazionale. Non si trattò semplicemente di turbamenti dell’età puberale, ma di un contagio assai più profondo da parte del male del secolo: la seduzione della "modernità", come la scoperta di un continente proibito, identificato con tutto ciò che veniva dalla letteratura europea di fine secolo. La temperie modernista provocava polemiche e smarrimenti; ma prima che essa raggiungesse il suo acme, il giovane Alberione l’aveva già superata, grazie a una esperienza straordinaria di "conversione" e di "illuminazione". Nel decennio di Pio X Non si può comprendere il sacerdozio di don Alberione senza conoscere il clima ecclesiale che contrassegnò il pontificato di Papa Sarto (1903-1914) e gli anni immediatamente precedenti. |
La Chiesa, a parte le opposizioni laiciste, si trovava davanti a una nuova frontiera, la nuova pastorale urbana, che sollecitava virtù e atteggiamenti nuovi: «Non possono i sacerdoti – scriveva ancora da cardinale – vivere nelle solitudini, ma... devono avvicinarsi ai popoli, e questo nei centri stessi delle città». Il che comportava una riscossa dall’inerzia in cui erano molti parroci. Perciò il patriarca di Venezia stabiliva una serie di misure per la predicazione al popolo: «La causa di tutti i mali [è] l’ignoranza delle verità religiose...; bisogna vincere il grave pregiudizio che il catechismo si debba insegnare soltanto ai fanciulli, quasi che la Chiesa, dopo averci nutriti nella fanciullezza, voglia lasciarci senza cibo da adulti. (...) Se la sua maternità è perseverante... la necessità della istruzione [catechistica] continua». Perciò a tutti i parroci viene fatto obbligo di tenere il catechismo per gli adulti in ogni pomeriggio festivo. Sul senso innovativo e sui limiti storici del pontificato di Pio X si è molto discusso, talora con drastici giudizi negativi, dimenticando la enorme complessità delle emergenze politiche e religiose che affiorarono al termine del lungo pontificato di Leone XIII. Ma, qualunque sia il giudizio che se ne può dare, è significativa la testimonianza che gli rese don Alberione, nella serena memoria degli anni maturi. Pio X era stato il Papa dei suoi esordi sacerdotali. Giuseppe Sarto aveva infatti 72 anni quando Giacomo Alberione, ventitreenne, veniva ordinato prete. Quasi mezzo secolo li separava; ma, se mai vi fu sintonia di spirito tra uomini di generazioni diverse, questa si trova indubbiamente fra il pretino albese e l’anziano Papa. Sintonia che, in termini evangelici e paolini, si chiama "pietà filiale". Nell’opuscolo Abundantes divitiæ, del 1954, don Alberione ricordava l’aureola di venerazione che circondava la figura di quel Papa durante gli anni della contestazione modernista, allorché al clero fedele Pio X appariva «in una luce affascinante: il nuovo Gesù Cristo visibile fra le moltitudini» (AD 49-50); di lui ammirava «l’opera vigile e risoluta [che] aveva illuminato e richiamato gli uomini di buona volontà» in un tempo di gravi turbamenti. Il Papa san Pio X e il vescovo di Alba mons. Francesco Re. Furono di grande esempio per il giovane don Alberione. «Queste cose ed esperienze, meditate innanzi al Ss. Sacramento, maturarono la persuasione: sempre solo ed in tutto, la romanità. (...) Non vi è salute fuori di essa; non occorrono altre prove per dimostrare che il Papa è il gran faro acceso da Gesù all’umanità, per ogni secolo». Di qui la decisione successiva di impegnarsi nella fedeltà al Papa con l’aggiunta del quarto voto «a servizio del Vicario di Gesù Cristo» quanto all’apostolato (AD 56-57).
Tuttavia le riserve non toccarono mai la sostanza del magistero né del ministero pontificio. Anzi da molte iniziative pastorali di Pio X il beato Alberione trarrà ispirazione per la vita e le attività delle sue fondazioni, particolarmente la devozione eucaristica intesa come apostolato. «Apostolato eucaristico, praticato già largamente, ma ancor privo di forma ed organizzazione definitiva». In ciò don Alberione «sentiva lo spirito del B. Eymard e di Pio X, che da tutti era chiamato il Papa dell’Eucaristia» (AD 295). Alla scuola del vescovo di Alba Due eminenti figure di sacerdoti plasmarono la immagine ideale del prete agli occhi del chierico Alberione: il vescovo mons. Francesco Re (1848-1933) e il canonico Francesco Chiesa (1874-1946). Mons. Re, figlio di operai astigiani, laureato in teologia e in utroque jure, direttore spirituale al seminario di Torino e quindi vescovo di Alba dal 1890 al 1933. «Uomo d’autorità, ma non autoritario…; fermissimo nel rivendicare la dottrina e la fedeltà al Papa, fu "liberale" nelle scelte pastorali, lasciando crescere esperienze e sensibilità diverse« (P. Reggio). Seguace rigoroso della filosofia scolastica e tomista, fu nettamente avverso al Modernismo, ma non alla modernità, come dimostrò nel suo atteggiamento verso la buona stampa. Una sua iniziativa colpì il giovane don Alberione: «Ogni domenica per alcuni anni, un elevato trattenimento tenuto dal Vescovo su la purezza della dottrina nei vari e più discussi temi… tanto che non si sapeva distinguere se fosse più profondo in teologia, o filosofia, o diritto canonico, o sociologia» (AD 175). Altra confidenza di don Alberione: «Un tempo [mi disse il Vescovo] predicavo di preferenza il dogma; poi di preferenza la morale; oggi sento più utile esporre le preghiere liturgiche, con gli insegnamenti dogmatici e morali che vi sono connessi». E questa confidenza fu "un indirizzo" per il giovane prete che si avviava a fondare la Famiglia Paolina (AD 73). Nella crisi del modernismo Fu soprattutto nel contesto della disputa modernista che il vescovo Re espose più chiaramente la sua visione del sacerdozio cattolico, nonché le sue valutazioni sul movimento, definito «compendio di tutte le eresie», enumerandone le tre colpe che determinarono la sua condanna: – l’odio alla Scolastica (relativismo dottrinale), il disprezzo della tradizione patristica (positivismo critico) e il disprezzo del magistero ecclesiastico (insubordinazione e orgoglio intellettuale). A mons. Re il giovane Alberione fu legato da venerazione e gratitudine. Fu lui che «fece suonare l’ora di Dio» per l’avvio del nuovo ministero alberioniano, e che si mostrò magnanimo nel concedergli la libertà necessaria (AD 30). In seminario il Vescovo scelse il giovane Alberione come suo "cerimoniere" nelle celebrazioni pontificali, e l’incaricò di redigere un libro di cerimonie liturgiche (AD 72), come pure di preparare i testi del catechismo per le varie classi. Un altro compito, considerato un grande atto di fiducia, fu l’animazione spirituale dei Terziari domenicani di Alba a nome del Vescovo, Terziario domenicano egli stesso (AD 121). In Seminario don Alberione si sentì sempre sostenuto da lui sulle innovazioni che riteneva utile introdurre circa la vita sacramentale e le devozioni (AD 184). Il secondo maestro di vita sacerdotale, primo per vicinanza al giovane Alberione, fu il canonico Francesco Chiesa. Ma di questi parleremo nel prossimo intervento. |